Tutti gli errori delle toghe sul papà killer del figlioletto

Le denunce per violenze non sono mai arrivate al Gip. Chiesto l'invio di ispettori a Varese

Tutti gli errori delle toghe sul papà killer del figlioletto

Una breve catena di sciatterie giudiziarie, una serie di decisioni prese in modo burocratico, fermandosi alle carte e senza mai guardare davvero negli occhi Davide Paitoni e l'abisso di violenza e di odio in cui si dibatteva. È questo, passo dopo passo, il quadro che emerge cercando di capire come sia stato possibile che vicino a Varese un bambino di sette anni sia stato affidato per la notte di Capodanno a un padre palesemente fuori controllo, protagonista di violenze ripetute in casa e fuori casa, e alle prese con una separazione traumatica. Il piano criminale di Paitoni - uccidere il bambino, poi la madre, poi uccidersi - era il punto di arrivo di questo piano inclinato. Il piccolo Daniele è stato la prima vittima, la madre si è salvata per caso. A uccidersi, alla fine, Paitoni nemmeno ci ha provato.

L'uomo finisce ai domiciliari il 30 novembre scorso, dopo avere accoltellato un collega. Sulle modalità di quel provvedimento ora le versioni della Procura di Varese e del tribunale divergono. Secondo il presidente del tribunale, Cesare Tacconi, la Procura non vedeva il rischio di nuove violenze da parte di Paitoni, ma solo che potesse inquinare le prove; il procuratore, Daniela Borgonovo (nel tondo), dice invece che Paitoni era considerato socialmente pericoloso. Eppure, secondo il tribunale, la Procura chiede per l'uomo i «domiciliari» senza alcun divieto, ed è il giudice preliminare di sua iniziativa a proibire a Paitoni di incontrare chiunque, compreso il figlio. Il giudice poteva essere più severo, e mandare Paitoni in cella? No, secondo Tacconi: «Non è possibile aggravare la misura richiesta».

In questo valzer di versioni, l'unica cosa certa è che il gip, derogando dalla sua precedente decisione, in dicembre autorizza Paitoni a tenere con sé qualche giorno Daniele alla fine dell'anno: come richiesto dal legale dell'uomo d'intesa con la moglie. È la decisione che è ora sotto tiro. Perché il giudice ha firmato, visto che Paitoni era accusato non solo del ferimento del collega ma anche di atti di persecuzione ai danni della moglie tanto da attivare un «codice rosso»? Semplicemente, spiega Tacconi, perché il giudice non lo sapeva: risulta che «non vi sia in Tribunale alcuna pendenza a carico dell'uomo, quindi se le denunce ci sono sono ancora in Procura».

È questo, alla fine, l'aspetto più inverosimile. Due uffici giudiziari separati da un piano di scale non hanno comunicato tra di loro, e Daniele è stato affidato al padre che lo avrebbe ucciso. Che fine avevano fatto le segnalazioni contro Paitoni da parte di alcuni conoscenti della moglie? Se la Procura avesse chiesto un provvedimento urgente per proteggere la donna, le carte sarebbero dovute arrivare all'ufficio gip. Se comunque il gip avesse chiesto chiarimenti, prima di firmare il permesso, probabilmente li avrebbe avuti. E forse oggi Daniele sarebbe ancora vivo.

Sono risposte che i magistrati varesini dovranno dare agli ispettori del ministero, se Marta Cartabia accoglierà la richiesta sia di Lega che di

Sinistra italiana di scavare nella tragedia di Gazzada. Ma nell'epoca della giustizia informatica, è difficile non pensare che bastava un database da due soldi per far sapere al giudice che Paitoni era un padre violento.

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