
Essere «pronti al peggio», dice l'Alto rappresentante Ue, Kaja Kallas. Produrre in Europa ed escludere le aziende statunitensi, britanniche e turche dai 150 miliardi di prestiti per la spesa militare, il controcanto di Ursula von der Leyen: ieri più concentrata sugli strumenti finanziari da fornire agli Stati membri e meno sugli iniziali accenti bellicisti del suo piano, tanto da aggiornare il nome. Due linee dentro lo stesso «governo» Ue, alla prova di un Consiglio europeo che si apre oggi con la netta divaricazione: tra il tandem tedesco e portoghese della presidente della Commissione europea e del Consiglio, Costa (entrambi colgono i segnali incoraggianti da Washington per una pace duratura) e il blocco nord, che oltre alla estone Kallas vede il Commissario alla Difesa, il lituano Kubilius, sventolare con sempre più forza la minaccia russa trasmessa dagli 007 danesi: «Il Cremlino si prepara a mettere alla prova l'Art. 5 della Nato prima del 2030, dobbiamo agire su larga scala».
Su questi presupposti oggi Ursula sottoporrà ai 27 capi di Stato e di governo le integrazioni al progetto di riarmo, sperando di incassare il sì dei leader anche sul sostegno all'Ucraina; l'acronimo contestato tra gli altri da Giorgia Meloni, è rimasto. Ma la Commissione accoglie i reclami. «ReArm» ha un secondo nome: «Readiness 2030», in onore di quella «prontezza» nell'operazione che l'Ue vuol dimostrare di avere. Ursula dichiara l'obiettivo di riattivare l'industria bellica Made in Europe «entro cinque anni» senza però lasciar immaginare che possa esserci un bersaglio da colpire. E aggiunge la promessa di «esplorare fonti di finanziamento aggiuntive (come il Mes) se lo strumento Safe (i 150 miliardi) non sarà sufficiente a rafforzare la base industriale e tecnologica Ue.
Per von der Leyen e Costa, infatti, il piano «non tratta solo di forza militare, ma dell'autonomia strategica dell'Europa come attore globale». Retorica diversa da quella messa in campo solo pochi giorni fa. Sul menù del Consiglio restano «prioritari» competitività e acquisti comuni. Entra l'esplicito riferimento alla collaborazione con l'Alleanza atlantica (altro punto sollevato da Meloni allo Consiglio informale). Investimenti in difesa aerea e missilistica, sistemi di artiglieria, missili e munizioni, droni e sistemi anti-drone, abilitanti strategici, mobilità, intelligenza artificiale, cyber e guerra elettronica «in piena coerenza con la Nato». Secondo Costa, i 27 dovrebbero dar seguito al piano restando «fermi nel sostegno all'Ucraina». Ma il Consiglio è chiamato a discutere tra le polemiche. Se Kubilius elogia infatti l'Italia, la sua industria, e parla di Leonardo come della «più forte azienda europea di difesa» spronando Roma a cogliere nell'opportunità degli investimenti nel settore il conseguente aumento di lavoro («strano se non lo facesse», dice presentando il libro bianco sulla difesa con von der Leyen), dice pure che «non fermeremo Putin leggendo questo libro». Kallas spinge ancora sugli arsenali; non per reale necessità di rilanciare l'industria (come spiegato da Ursula) o ridare credibilità alle scorte Ue. Ma per sostenere Kiev e contrapporre armi all'azione di Mosca. Immediata la replica del vicepremier Salvini: «Se dessimo retta alla commissaria Kallas saremmo in guerra, ho un figlio di 21 anni, non voglio mandarlo in Ucraina, ci vada lei, non penso che la Russia sia una minaccia». Controcanto che vede l'Ungheria e la Slovacchia sulla stessa lunghezza d'onda. Poi un altro affondo del leader del Carroccio, dopo le comunicazioni di Meloni alla Camera: «Ha il mandato per difendere l'interesse nazionale, non penso che quello di cui sta parlando qualcuno a Bruxelles corrisponda all'interesse italiano».
Trame diplomatiche in pieno fermento.
Il Consiglio dovrà chiarire quale traiettoria seguire: quella dei nordici, Estonia e Lettonia, che assieme alla Polonia ipotizzano perfino di stracciare il trattato che proibisce il ricorso a mine anti-uomo in nome della sicurezza anti-russa. O di Costa e von der Leyen,
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