«E i curdi?» Da ieri mattina l'interrogativo divide l'Amministrazione statunitense e si configura come la nuova grande incognita della politica americana in Medioriente. A dar corpo alla nuova divisiva questione ci pensa Donald Trump con uno dei soliti tweet delle sette di mattina. «Abbiamo sconfitto Isis in Siria, la mia sola ragione per esser lì durante la presidenza Trump» recita il messaggio. Poche parole interpretate da fonti militari come l'annuncio di un «rapido» e «totale» ritiro dei 2mila militari americani dispiegati nelle zone nord orientali della Siria per annientare le ultime sacche dello Stato Islamico al confine con l'Iraq. Un annuncio motivato, a detta di Trump, dalla necessità di mantenere le promesse fatte agli americani in campagna elettorale. Ma il mantenimento di quelle promesse, come fanno notare da tempo il segretario alla difesa Jim Mattis e altri esponenti del Pentagono, ha delle ricadute di non poco conto. La prima e la più seria riguarda gli alleati curdi dell'Ypg (Unità di protezione popolare), principali protagonisti delle offensive condotte per liberare Raqqa e gli altri ex territori del Califfato.
Un ritiro americano lascerebbe campo libero all'offensiva dell'esercito turco pronto, come annunciato venerdì scorso dal presidente Recep Tayyp Erdogan, ad invadere la zona nord orientale della Siria a partire dalla città di Mambij ed eliminare la presenza delle milizie curde. Per Ankara le milizie dell'Ypg altro non sono che una formazione terroristica legata al Pkk di Abdullah Ocalan, il leader curdo condannato all'ergastolo e recluso su un' isola semideserta. Stando a quanto dichiarato da Erdogan venerdì, cioè ben cinque giorni prima del tweet di Trump, il presidente americano avrebbe già dato il suo consenso all'operazione turca a patto che questa non metta a rischio l'incolumità dei soldati americani. Ma a preoccupare molto di più Jim Mattis e i vertici del Pentagono è l'inevitabile perdita di credibilità che s'abbatterebbe sull'America se la Casa Bianca abbandonasse al proprio destino i curdi dopo averli armati e addestrati utilizzandoli come carne da cannone per più di 4 anni.
A quel punto, fanno notare fonti del Pentagono, sarebbe molto difficile trovare qualcuno pronto a combattere al fianco degli Stati Uniti e questo avrebbe serie conseguenze in Afghanistan, Iraq e agli altri fonti in cui sono impegnate le truppe americane. Ma abbandonare la Siria significherebbe anche rinunciare definitivamente a qualsiasi ruolo nella pacificazione del paese accettando di fatto l'egemonia russa. Anche per Vladimir Putin, principale alleato del presidente siriano Bashar Assad, il ritiro americano seguito da un'immediata offensiva turca rappresenta comunque un problema non da poco.
I rapporti con Erdogan, ricuciti dopo l'abbattimento nel 2015 di un aereo russo in Siria, sono cruciali per mettere fine allo stallo di Idlib, la provincia del nord ovest della Siria occupata da decine di migliaia di ribelli jihadisti di cui la Turchia s'è impegnata a garantire il ritiro per evitare un'offensiva congiunta di Mosca e Damasco.
Una presenza turca nelle regioni curde nord orientali, oltre a quella intorno ad Afrin occupata dall'esercito di Ankara lo scorso marzo, renderebbe assai complesso anche il raggiungimento di un accordo di pace tra il governo siriano e i ribelli. Anche perché per sloggiare i curdi dal nord Erdogan userebbe le milizie, composte da ex ribelli siriani d'ispirazione jihadista.
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