È uscito anche Franco, il carceriere del bambino che fu sciolto nell'acido

Il complice di Brusca condannato all'ergastolo. Era uno degli aguzzini del piccolo Di Matteo

È uscito anche Franco, il carceriere del bambino che fu sciolto nell'acido

Quattro pareti alzate in qualche modo in un magazzino per le olive, nelle campagne a est di Palermo. Qui visse per due mesi, nell'estate del 1994, il piccolo Giuseppe Di Matteo, prima di venire sciolto nell'acido. Il suo carceriere si chiamava Cataldo Franco, uomo d'onore della famiglia di Gangi. Da ieri, Franco è fuori dal carcere, nonostante la condanna all'ergastolo. Libero in nome del coronavirus, ultimo e clamoroso ingresso nella lista dei detenuti di massima sicurezza miracolati dall'epidemia.

A concedergli gli arresti domiciliari per motivi di salute è stato il tribunale di sorveglianza di Palermo. Da ieri è a casa, a Geraci Siculo. Poiché è vecchio - ottantacinque anni - e malconcio, se si ammalasse di Covid rischierebbe la vita: questa, in sostanza, la motivazione. In teoria, il nuovo decreto varato dal ministro Bonafede prevedeva che per mettere fuori un detenuto del calibro di Cataldo Franco i giudici chiedessero il parere della Procura nazionale antimafia: ma il parere non è arrivato, o non è servito a impedire che la cella dell'aguzzino si aprisse. Eppure non si parla di un comprimario. Ad accusare Franco e a farlo condannare fu lo stesso Brusca, velocemente pentito dopo l'arresto: raccontò che era un suo uomo di fiducia, che si era già adoperato per ospitare due latitanti della sua cosca destinati a venire impiegati nel sequestro, Stefano Bommarito e uno dei fratelli Agrigento (Giuseppe o Romualdo); che aveva accolto nel suo magazzino i tirapiedi di Giuseppe Monticciolo per allestire la cella. E che nell'estate del 1994 gli era stato consegnato l'ostaggio, già da sei mesi nelle mani di Brusca. Franco lo tenne con sé due mesi, bendato e terrorizzato. Poi lo riconsegnò al boss. Di Matteo venne trasferito a Lentini, da lì a San Giuseppe Jato, il paese di Brusca, nella cella sotterranea da cui sarebbe uscito solo per venire strangolato e sciolto nell'acido. Tutto per vendetta contro il pentimento di suo padre, Santino Di Matteo.

«Tutti coloro che hanno partecipato, in qualsiasi modo, al sequestro di mio figlio - dice ieri Francesca Castellese, madre del ragazzino - devono rimanere in carcere a vita, perché la mia sofferenza per la morte del piccolo Giuseppe non avrà mai fine, quindi la sofferenza degli altri non deve avere mai fine». Ma è un grido d'angoscia che arriva fuori tempo massimo. Perché Franco era uno dei pochi responsabili di quella vicenda terribile a essere ancora dentro. Seguendo l'esempio di Brusca, si erano pentiti tutti, uno dopo l'altro, uscendo dal carcere senza aspettare il coronavirus: il fratello Enzo Brusca e Giuseppe Monticciolo, che dell'assassinio erano stati gli esecutori materiali; poi Bommarito, quello ospitato dallo stesso Franco, e via via tutti gli altri. Al punto che alla fine dei processi a pagare i due milioni di risarcimento alla madre di Giuseppe, era stato il governo.

La scarcerazione di Cataldo Franco suscita ieri l'indignazione di politici e poliziotti. Ma ormai, nonostante le promesse del ministro Bonafede e il cambio al vertice del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, il fiume dei mafiosi che lasciano il carcere appare inarrestabile.

Nel dossier, riportato ieri da Repubblica, che il Dap ha trasmesso alla commissione parlamentare antimafia compaiono ben 376 nomi di detenuti legati alla criminalità organizzata che hanno potuto lasciare la cella. E a guidare la classifica delle scarcerazioni sono i tribunali di due tra le città più profondamente segnate dalla penetrazione mafiosa, Napoli e Palermo.

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