La vera tentazione di Khamenei: scegliere suo figlio. Ma il regime trema

Colloquio con i massimi esperti Usa. Morto Raisi, l'unico delfino rimane Mojtaba. L'alternativa è l'attuale speaker del Parlamento, Ghalifab

La vera tentazione di Khamenei: scegliere suo figlio. Ma il regime trema
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Mentre a Teheran hanno inizio le cerimonie funebri per Ebrahim Raisi, in Occidente si ragiona sull'improvvisa crisi politica in atto nella Repubblica islamica e sulle sue conseguenze per gli equilibri regionali e globali. In ballo non c'è solo la scelta del successore di Raisi, ma, in prospettiva e ben più importante, quella del successore dell'85enne Guida Suprema Ali Khamenei.

Il Giornale ha partecipato a una conversazione organizzata da Foreign Policy, con due dei massimi esperti statunitensi di Iran: Robin Wright, firma del New Yorker e studiosa del Woodrow Wilson International Center for Scholars; e Karim Sadjadpour, membro del Carnegie Endowment for International Peace. Sicuramente, la morte del presidente «più impopolare» rappresenta per l'Iran un «punto di svolta», spiega Wright: «Raisi era colui che doveva supervisionare la transizione dopo l'inevitabile morte di Khamenei. Raisi era anche uno dei due più ovvii candidati alla sua successione. L'altro è il figlio di Khamenei, Mojtaba. Se questo dovesse accadere, si creerebbe di fatto una dinastia teocratica».

Al di là delle teorie complottiste che vogliono Khamenei beneficiario della morte di Raisi, che favorirebbe l'ascesa del figlio a guida suprema, in realtà la sua scomparsa complica i piani dell'ayatollah. «Kahemenei aveva coltivato Raisi per gli ultimi venti anni. La sua morte è un duro colpo per lui», sostiene Sadjadpour. Per Khamenei, in vista delle elezioni del 28 giugno, secondo l'esperto si aprono tre opzioni: «Una è introdurre suo figlio agli iraniani, facendolo candidare alla presidenza, proprio come fece con Raisi, ma credo sia improbabile; un'altra è andare sul sicuro, scegliere qualcuno con un passato nelle forze di sicurezza. Il candidato forse più ovvio è l'attuale speaker del Parlamento, Mohammad Bagher Ghalibaf; un'altra opzione è trovare una replica in minore di se stesso, qualcuno che sia un clerico radicale, come Raisi, con qualche competenza manageriale». Ma quel che è certo, afferma Sadjadpour, è che «il regime è in una posizione molto precaria» e «la morte di Raisi sta accelerando uno dei due probabili scenari: la transizione dell'Iran verso la dittatura militare. L'altro scenario è l'implosione del regime».

Anche per Wright, «in gioco c'è il futuro della Rivoluzione. Ci sono stati tentativi di riformarla, in modo da potersi gradualmente reintegrare nel mondo. Era un po' il senso dell'accordo nucleare del 2015. Dopo la decisione di Trump di uscire dall'accordo, l'Iran è stato incentivato a spingere di nuovo sul suo programma nucleare e probabilmente ora diventerà la prossima potenza nucleare. Dopo l'attacco subito in Siria e dopo il disastroso attacco contro Israele, Teheran non si sente sicura, anche con il suo vasto arsenale missilistico».

E c'è poi, sullo sfondo, il ruolo dei Guardiani della Rivoluzione, che possono assumere il ruolo di «king maker». «Secondo la Costituzione - ricorda Sadjadpour - è l'Assemblea degli Esperti a scegliere o rimuovere la guida suprema. Ma la domanda è: i 190mila pasdaran accetteranno che sia un gruppo di clerici ultraottantenni a scegliere il loro nuovo comandante in capo? Per grandi linee, ci sono due scuole di pensiero tra i vertici dei Guardiani della Rivoluzione. Ci sono quelli che vogliono continuare con lo spirito del 1979, mantenere l'Iran uno Stato rivoluzionario. Poi ce ne sono altri che non sono certo democratici, ma che credono che il Paese dovrebbe aprirsi, decidendo come fecero i cinesi negli anni '70 di dare la priorità all'economia e agli interessi nazionali».

Quel che è certo, conclude Wright, è che nell'immediato non ci saranno cambiamenti nella politica estera dell'Iran.

«Più l'Iran si sentirà isolato dall'Occidente o minacciato da Israele e più stringerà i suoi legami con Cina, Russia e Corea del Nord. Anche se è un'alleanza improbabile che non durerà, eccetto per il fatto che sono tutti anti-americani e anti-occidentali, ma questa è l'unica cosa che li tiene insieme».

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