«E ti prende come un senso di vergogna, come se quel che ti è successo fosse colpa tua». Lo scrisse Gianluca Vialli in Goals, libro dal titolo ottimista, anzi esultante, ma con il veleno nella coda. Quel veleno che l'ha ucciso: la Malattia, il cancro. Correva il 2018, una vita fa, a giudicare da ciò che è venuto dopo e che ancora non se ne vuole andare, quell'altro veleno. Da circa un anno, nel 2018 Vialli sapeva. Dopo le poche pagine che chiudono la sua galleria di sportivi con gli attributi, seppe il mondo. Come ha saputo, più recentemente, del problema di Fedez, il quale venerdì ha detto, rivolgendosi a Gianluca: «Con te ho pianto, conoscevi il mio stesso dolore per la malattia».
Nel 2019, fu Sinisa Mihajlovic a metterci la faccia, con tutto il resto del corpo: leucemia. Vialli era un attaccante che difendeva la palla e la vita. Mihajlovic era un difensore che attaccava il male. Ma fino a quando si è sani, si è tutti un po' centrocampisti di quantità, più che di qualità: ci si arrangia lontano dalle porte, che sono le soglie oltre le quali il campo finisce. Finisce il campo, però fuori dal campo c'è il mondo. E comunicare al resto del mondo quelle cose, può servire. Vialli e Mihajlovic l'hanno capito. Si sono messi a disposizione del mister, hanno fatto gruppo. Non più leader, ma portatori d'acqua, la medicina più importante, insieme a quella imbattibile forza interiore che si chiama voglia di vivere.
Inutile girarci intorno, se va sotto i ferri chi è vissuto sotto i riflettori, la gente alza la soglia dell'attenzione. Ascolta, legge, guarda, si commuove. E magari va a fare un esame del sangue. La testimonianza del testimonial contribuisce a risolvere altri casi, ma senza retorica, dicendo: «guardate che può capitare». Gianluca e Sinisa l'hanno fatto uscendo dal personaggio ed entrando in ospedale. In fondo vivere significa mettere fra parentesi la morte, ma sapendo che dentro le parentesi la morte c'è sempre. In questo senso nel pantheon delle celebrità troviamo numerosi benemeriti.
Nel 1964 John Wayne si ammalò di cancro ai polmoni. Il re del western volle essere inserito nei protocolli sperimentali di cura, compreso uno che testava il primo tentativo di vaccino contro i tumori. Visse ancora quindici anni, durante i quali esortò sempre il suo pubblico a farsi dare una guardata dal medico, ogni tanto. Nel 1984 a Rock Hudson, altra stella del cinema, fu diagnosticato l'Aids. L'anno dopo rese pubblica la notizia, primo personaggio pubblico a farlo. Fu una bomba. Tutti capirono che quella malattia poteva colpire chiunque, anche molto più in alto nella scala sociale, che in quel caso non è più una scala, ma una livella. Nel 1991 Magic Johnson, il Pelé del basket, annunciò di aver contratto il virus dell'Hiv. E tutto il mondo capì che essere positivi all'Hiv non significa necessariamente avere l'Aids. «Non sono morto e per quanto mi riguarda voglio vivere a lungo, venire qui a vedere le vostre partite e rompervi le scatole», disse Magic. L'Aids, lui non soltanto l'aveva stoppato sotto canestro, ma lo sottopose a una marcatura rigidissima, diventando un fuoriclasse anche nella comunicazione su come prevenire la malattia.
Chi invece parlò anche da morto, con la sua voce profonda, fu Yul Brynner, vittima del tumore ai polmoni. «Adesso che me ne sono andato, ve lo dico chiaramente, non fumate. Se avessi potuto eliminare tutto quel fumo, adesso non sarei qui a parlare di cancro. Ne sono più che convinto», disse in uno spot dell'86. Macabro, certo, ma quanti milioni di sigarette avrà spento?
Il tumore e l'Aids sono noti a tutti.
Ma quanti sapevano dell'esistenza della sindrome della persona rigida prima che ne parlasse, parlando di sé, la cantante Celine Dion un mese fa? «Purtroppo, questi spasmi colpiscono ogni aspetto della mia vita quotidiana, a volte causando difficoltà quando cammino e non permettendomi di usare le mie corde vocali per cantare come sono abituata». Non era un acuto, ma una nota a margine, da mettere fra parentesi.
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