D'Alema si è «rotto i cogl...» (ma come «concetto generale») degli articoli che lo tirano in ballo a proposito di affari milionari e mega-commesse internazionali. Lo ha spiegato direttamente lui, al telefono, in un colloquio molto dalemiano con il videdirettore del Domani, Emiliano Fittipaldi, autore dell'inchiesta sulla transazione di 35 milioni di euro da parte dell'Eni ad una società di Francesco Nettis, «l'ex socio di D'Alema». Tutto ciò dopo le inchieste sulla compravendita di armi in Colombia, in cui D'Alema si presentò come intermediario (anche quelle tutte accuse «che non c'entrano un beato caz...»). Il quotidiano di De Benedetti racconta di due telefonate con l'ex premier, la prima è «nei limiti della cordialità, la seconda meno». Ma il «meno» è un eufemismo. Oltre alle parolacce, agli insulti personali a Fittipaldi (a cui D'Alema pretende di dare lezioni di giornalismo), alle minacce di querela, D'Alema ingaggia uno scontro anche con l'editore del quotidiano diretto da Stefano Feltri, cioè l'ingegner Carlo De Benedetti. La trascrizione del colloquio è esilarante perché è dalemismo puro (ma va letta simulando mentalmente la voce di D'Alema, sennò non rende). «Buonasera (rivolto al cronista, ndr), ho fatto il suo lavoro, quello che dovrebbe fare lei. Ho parlato con tutti i protagonisti, anche con il mio avvocato. Mi sono un po' rotto i coglioni. Un concetto generale». Poi spiega perché l'inchiesta sarebbe infondata, e aggiunge: «Abbiamo tutta la documentazione, i riscontri, potrei persino mandarle le fotocopie ma non le mando un cazzo». Quindi annuncia un causa legale, insieme all'Eni, «così ci divertiamo», perché la tesi che Nettis mi avrebbe dato mezzo milione in cambio della mia mediazione con Eni è una cazzata priva di qualsiasi fondamento!». A quel punto non è più un dialogo ma un'esplosione dell'ego esasperato dell'ex segretario Ds. Urla: «Io ho fatto il giornalista, mentre lei raccatta merda di mestiere. Io ho fatto il direttore di un grande giornale dove uno come lei non l'avrei assunto. Noi non cercavamo di raccattare merda». La grande direzione giornalistica a cui D'Alema fa riferimento è quella dell'Unità, che D'Alema ha diretto in quanto organo del partito, come pure ha fatto Walter Veltroni (e prima ancora Pietro Ingrao, Gian Carlo Pajetta , Emanuele Macaluso, tutti parlamentari del Pci), non per meriti giornalistici ma in quanto importante esponente del partito di cui l'Unità era l'espressione cartacea. In realtà D'Alema ha sempre odiato i giornalisti, da lui definiti «iene dattilografe», compresi i vignettisti, visto che chiese tre miliardi di lire a Forattini (D'Alema però non risulta abbia rinunciato alla pensione Inpgi, quella degli ex giornalisti). Contro il Domani D'Alema ha anche un altro obiettivo da colpire oltre ai giornalisti, cioè l'editore De Benedetti. Dice, sempre incazzatissimo, «noi, Nettis, Eni e io, a farle causa, il suo padrone i soldi li ha, lui sì veramente, e so bene come li ha fatti quindi è in grado di ripagarci». Quindi, dopo aver accusato il quotidiano di dare credito a «cazzari che si dicono cazzate senza alcun riscontro», si congeda con un ghigno satanico: «Scriva quello che vuole, l'idea di citare l'ingegner De Benedetti mi diverte».
Tra i due, in effetti, ci sono antiche ruggini. Ogni tanto si insultano a vicenda. Quando D'Alema uscì dal Pd per andare in Leu, De Benedetti la definì una «avventura ridicola». Richiesto di replicare a questa affermazione, D'Alema rispose: «Non mi interessa, non mi occupo di insider trading».
Prima ancora, quando l'editore (allora) di Repubblica lo accusò di aver ammazzato il Pd, D'Alema gli affibbiò il nomignolo di «berluschino» («Ci sono tanti imprenditori che vogliono fare i Berlusconi di sinistra, che vogliono condizionare la politica. Ma sono dei Berlusconi di serie B, dei "berluschini"»). D'Alema? «É un caso umano», gli risponderà poi De Benedetti. La rissa continua.
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