È morto a 93 anni Piero Angela, il patriarca della divulgazione italiana. Il 16 agosto, dalle 11,30, sarà allestita in Campidoglio la camera ardente. A seguire è previsto il funerale laico per il grande giornalista e divulgatore scientifico.
Oggi è fin troppo facile vantarsi di quella parola. Oggi più nessuno esita a raccontare il bosone di Higg come fosse una fiction, o la scomparsa del Tirannosaurus Rex quasi si trattasse di un giallo alla Agatha Christie. Oggi fare divulgazione spiegare cioè con parole facili e accattivanti argomenti difficili e (apparentemente) ostici- è diventato un titolo di merito. Ma quarant'anni fa non era così. Allora ci volle il coraggio e il talento di un giornalista della Rai, che inviato ad Houston, Texas, per seguire il programma spaziale Apollo, s'entusiasmò alla soluzione d'un dilemma apparentemente insuperabile: come spiegare a telespettatori di cultura medio-bassa quell'ardua tecnologia, rispettandone l'esattezza ma senza disperderne il fascino? «È cominciato tutto così spiegava lui stesso- Fu allora che capii che rendere facile il difficile, e piacevole l'arido, poteva essere un'avventura entusiasmante». Ecco: questa è stata l'entusiasmante avventura di Piero Angela. Perché se la Rai dei primi vent'anni contribuì all'alfabetizzazione del Paese, quella dei successivi quaranta ha cooperato all'incremento del suo sapere. E se molti italiani il proprio sapere l'hanno aumentato, e prendendoci gusto, nel farlo, lo devono anche a lui. Al più grande, al più amato dei divulgatori tv.
«E pensare che a scuola mi annoiavo a morte», raccontava, dopo aver scritto quaranta libri, ricevuto undici lauree honoris causa, e battezzato un asteroide, il 7197 Piero Angela. Finchè gli capitò fra le mani un libro di scienze: «Scoprii ciò che a scuola non ci dicevano: che bisogna amare le cose, per capirle davvero. Quella fu per me la scoperta di un mondo e, in qualche modo, anche di una vocazione». Anche se, nato a Torino ed educato ad un rigore tutto piemontese dal padre medico Carlo (poi insignito del titolo di «Giusto fra le Nazioni») la sua passione era tutt'altra. «Adoravo la musica jazz. Suonavo al piano nei club della città As time goes by». Quando già celebre giornalista, dopo molte jam sessions con big come Nini Rosso e Franco Cerri, gli chiedevano perché non avesse inciso dei dischi, «Ne feci uno solo, nel 1953 rispondeva, esibendosi al piano a Quark quando si parlava di musica - perché allora ero veramente bravo. Ma oggi».
Il suo destino era un altro. Settant'anni ininterrotti in Rai, dal 1952 al 2022: prima giornalista radiofonico, poi inviato in Iraq e Vietnam, quindi conduttore del primo Telegiornale delle 13,30, fino al debutto come divulgatore nel 1971, con Destinazione uomo. Finchè nel 1981 ecco il programma-simbolo: quel Quark (dal nome della particella subnucleare) che coniugato per decenni in infinite, seguitissime varianti -Superquark, Pillole di Quark, Speciali di Quark- rispettò sempre lo stesso principio. Argomenti alti illustrati con parole semplici. Magari tramite i cartoni animati di Bruno Bozzetto, o la voce di Vittorio Gassman e Gigi Proietti, accompagnando il telespettatore in ogni meandro del sapere: dal DNA ai miti della Storia, fin dentro il corpo umano. Una sola celebrità gli disse no: «Rita Levi Montalcini. Nel '69 le chiesi di spiegare in tre minuti il fattore di crescita nervosa che poi le avrebbe procurato il Nobel. Tre minuti? Scherza? e se ne andò». Semplice, nelle sue parole, perfino la ricetta di una buona divulgazione: «Bisogna mettersi dalla parte degli scienziati per i contenuti, ma da quella del pubblico per il linguaggio. Se un telespettatore non ti capisce la colpa non è sua, ma tua. Poi bisogna evitare di essere noiosi: come fa ad interessarti a qualcosa, se intanto sbadigli? Infine bisogna essere spiritosi. L'umorismo è uno dei compagni di viaggio dell'intelligenza».
Il successo che per decenni ha premiato questa formula con ascolti perennemente alti, ha spesso fatto da alibi alle critiche rivolte a viale Mazzini. Ogni volta che venivano accusati di smarrire il ruolo di servizio pubblico, i direttori di rete tiravano fuori quel nome magico, buono per tutte le stagioni: Piero Angela. Ma lui rifiutava di farsi tirare la giacchetta. Perfino le contese lo vedevano signorile e distaccato: alle polemiche di Alessandro Cecchi Paone (che per anni si ritenne suo misconosciuto avversario) non replicò mai. Del resto, con la parziale eccezione del figlio Alberto («Non volevo che lavorasse con me, Sei matto? Mi accuseranno di nepotismo!. Ma come narratore è migliore di me») è stato un maestro, senza però creare una scuola.
Decine di tentativi d'imitazione, più o meno riusciti, non hanno fatto che ribadirne l'unicità. Che lui, con umiltà, commentava: «Sono orgoglioso di un premio ricevuto dall'ordine dei giornalisti. E della sua motivazione: Per aver onorato il nostro mestiere».
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