Come una canzone. «Case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale», cantava Tiziano Ferro vent'anni fa, inconsapevole che il suo elenco sarebbe diventato il catalogo dei benefici concessi ai lavoratori dalle imprese. Nel 2004, infatti, il mondo del welfare aziendale era ancora in fase di piena evoluzione e si circoscriveva molto spesso nel cellulare e nell'auto aziendale, nei buoni pasto e nei premi di produzione. Oggigiorno i benefit fungibili dai dipendenti sono molto più numerosi e comprendono una estesa serie di vantaggi che spazia dal sostegno agli affitti e al pagamento delle bollette per giungere ai contributi per lo studio della prole (scuole secondarie e università) al turismo, financo al caretaking e al sostegno psicologico. Senza dimenticare, ovviamente, le polizze sanitarie, sempre più imprescindibili, e la previdenza integrativa.
Miracoli della contrattazione di secondo livello, uno dei tanti lasciti (che l'ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha tradotto in legge) per i quali non si dovrebbe mai obliare la figura di Marco Biagi. Il welfare aziendale, in fondo, è una sorta di «liberazione» del lavoratore dalla gabbia del contratto nazionale, che fissa parametri rigidi di inquadramento e di retribuzioni minime, al fine di stimolarne la produttività per mezzo di una serie di premi, in denaro o in benefici equivalenti. Basti pensare che il concetto novecentesco di «welfare» (che ha in nuce un portato paternalistico, o bismarckiano a seconda degli orientamenti) è ormai sostituito da quello di «well being», il che per noi italiani pone un problema di traduzione giacché entrambi i termini sottintendono l'idea di benessere. Ma se il primo ha una connotazione prettamente economica, il secondo allude allo stare bene con se stessi e con il mondo che ci circonda. In tutti i sensi. Prima di addentrarci in questo universo, tuttavia, è necessario un breve excursus normativo per comprendere appieno quanto il welfare aziendale sia importante per le relazioni industriali.
Prima dell'ondata iperinflazionistica determinata dalla guerra russo-ucraina, che ha provocato un'impennata dei prezzi energetici, il discorso sul welfare aziendale era circoscritto agli esperti della materia. La perdita di potere d'acquisto delle retribuzioni ha convinto prima il governo Draghi e poi l'esecutivo Meloni a investire sulla detassazione dei premi di produttività e dei fringe benefit (ossia le retribuzioni non in denaro). Le leggi di Bilancio 2023 e 2024 hanno abbassato al 5% l'aliquota Irpef sui premi di produttività in denaro fino alla soglia di 3mila euro per redditi lordi annui fino a 80mila euro in caso di lavoratori. Tale agevolazione l'anno scorso è stata estesa alla conversione dei premi in fringe benefit per dipendenti con figli a carico, mentre per il 2024 il limite è stato abbassato a 2mila euro (mille euro per i lavoratori senza prole). Il decreto legislativo Irpef, attuativo della delega fiscale, ha alzato l'aliquota 2025 al 10% per i premi di produttività, mentre nulla è stato finora previsto per i fringe benefit la cui detassazione per l'anno in corso vale 800 milioni, cifra non più sostenibile visto il ritorno in vigore del Patto di Stabilità, l'attenuarsi delle pressioni inflazionistiche e, soprattutto, la voragine da 175 miliardi di euro causata nei conti pubblici dal Superbonus 110%. Nei primi dieci mesi del 2023, ha riferito il ministero del Lavoro, circa 1,7 milioni di dipendenti ha ricevuto questa forma di «flat tax». E, sicuramente, queste agevolazioni oltre al taglio del cuneo fiscale sono state decisive per ridurre sotto il 20% la quota di popolazione a rischio povertà.
Secondo l'Osservatorio Edenred, la disponibilità media di spesa per ciascun beneficiario nel 2023 si è attestata a 910 euro, in leggero calo rispetto ai 940 euro del 2022. Scorporando il dato medio in base ai beneficiari, risulta che il 54% del campione ha beneficiato di un'erogazione fino a 500 euro, il 19% tra i 500 e i 1.000 euro, il 16% tra i 1.000 e i 2.000 euro, il 6% tra i 2.000 e i 3.000 euro, mentre solo il 5% supera i 3.000 euro. La quota maggiore di spesa riguarda i fringe benefit (buoni pasto soprattutto) con il 31,8% del totale, seguiti dall'area ricreativa con il 29,5%. Seguono i capitoli della macroarea sociale, come istruzione (19,6%), previdenza integrativa (9%), assistenza sanitaria (5%) e assistenza ai familiari (1,2%). Non bisogna, poi, dimenticare che esiste un welfare a costo zero rappresentato dal cosiddetto «smart working», cioè dalla possibilità di lavorare da remoto per uno o più giorni della settimana. In generale, il mercato del welfare aziendale vale circa 3 miliardi di euro e coinvolge circa un'impresa su tre. Solo il 22% delle pmi, tuttavia, farebbe ricorso al welfare abitualmente, si osserva nel Rapporto 2023 dell'Osservatorio Secondo Welfare. La ricerca Edenred, invece, ha posto in evidenza come il welfare medio pro-capite nel 2023 si attesti su livelli elevati nei servizi finanziari (1.683 euro), nei servizi professionali (1.181 euro) e nell'immobiliare (1.117 euro), mentre nell'industria e nel manifatturiero la quota media edi 693 euro. Le imprese che investono in queste politiche a favore dei dipendenti sono, infine, ubicate in maggioranza al Nord con una quota molto prossima al 70% del totale.
OPPORTUNITÀ E RISCHI
Il welfare aziendale non è stato solo un metodo per difendere le retribuzioni dall'erosione inflazionistica. Premi di produttività e benefit aumentano anche il coinvolgimento e la fidelizzazione dei dipendenti. Un'indagine Bva Doxa su 1.500 intervistati ha evidenziato che il 75% del campione considera molto valido lo strumento dell'incentivazione per incrementare e favorire l'engagement dei dipendenti. Il 62% di coloro che fruiscono di piani di welfare ha indicato nel sentirsi responsabilizzato il valore più importante, seguito dal sentirsi apprezzato (52%) e coinvolto (51%). Il 68% dei dipendenti ritiene molto rilevante l'impatto della condizione lavorativa sul benessere mentale e psicologico, percentuale cresce all'87% tra coloro che hanno un elevato benessere lavorativo. Insomma, i benefit sono anche un metodo antistress. Anzi, tanto maggiore sarà l'offerta di welfare e di well being tanto più la giovane manodopera qualificata sarà invogliata a preferire un'azienda anziché un'altra.
Il rovescio della medaglia è rappresentato dalla barriera che si crea tra le aziende ancora in minoranza che erogano welfare e quelle che non lo fanno. Ad esempio, grandi gruppi industriali e dei servizi (per citarne alcuni: Enel, Eni, EssilorLuxottica, Ferrero, Intesa Sanpaolo e Tod's) sono molto generosi nei confronti dei dipendenti.
Questo creerà sebbene involontariamente un discrimine tra chi può investire nel benessere di dipendenti, quadri e manager e chi non può, tra chi è «professionalizzato» per lavorare in un determinato contesto e chi, invece, resta impiegato in edilizia e agricoltura, tra i settori che utilizzano meno il welfare e che non di rado assumono manodopera poco qualificata. Ma questo è anche un problema di qualità dell'intero sistema della formazione.
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