Milano - È l'angelo custode che dà del lei. Fenomenologia di un rapporto inesauribile: come marito e moglie, ma senza la crisi del settimo anno. Alberto Zangrillo e Silvio Berlusconi. Insieme sul palco e sul letto di ospedale, davanti alla folla osannante che canta «meno male che Silvio c'è» e in piazza Duomo quando Tartaglia scaglia la statuetta in faccia al Cavaliere. La buona e la cattiva sorte, le standing ovation e i fischi furibondi, le lodi sperticate e gli insulti irriferibili. Un'alchimia che regge dal 2001, quando la stella del Cavaliere brillava in tutto il suo fulgore.
Un rapporto che ha assorbito Zangrillo rendendolo nel contempo un personaggio pubblico. Perché dove c'è l'uno s'intravede anche l'altro. A distanza, ma in realtà a portata di mano, apparentemente assorto nei suoi pensieri ma in realtà protettivo. Zangrillo è il medico di fiducia, ma si sa che la dizione è riduttiva perché Berlusconi cerca l'elisir dell'immortalità e dunque ci vorrebbe il lettino dello psicanalista per documentare la relazione fra i due. A suo tempo, il Cavaliere discuteva di longevità, e anche qualcosa in più, direttamente con don Verzé con cui il rapporto è sempre stato speciale. I due pensavano di campare fino a 120 anni, poi il sacerdote veronese che sognava di costruire un centro di medicina predittiva al suo paese, Illasi, e di offrire all'amico Silvio la formula magica, se n'è andato senza completare i suoi ambiziosissimi programmi a 91 anni e a Berlusconi è rimasto Zangrillo. Con cui il feeling era già totale.
Va detto che il medico genovese, 58 anni, sposato con tre figli, ha avuto una progressione in carriera ineccepibile. E non è affatto dimostrato che la vicinanza con Silvio gli abbia giovato. Anzi. Dopo la laurea a Milano, nel 1983, Zangrillo si dedica a quella branca di frontiera, nel senso più metafisico della parola, che è la terapia intensiva. Scrive più di 260 articoli scientifici, ospitati sulle più prestigiose riviste internazionali. Approda al San Raffaele dove nel 2008 diventa primario del reparto di anestesia e rianimazione e professore ordinario all'università dell'ospedale. Quello è il suo mondo da cui non si può staccare. Come una conchiglia dal fondale marino: nel 2008 il Cavaliere, con cui ormai c'è sintonia totale, gli chiede di fare il ministro della Sanità. Ma lui rifiuta. È un medico e morirà col camice bianco.
Certo, va a Virus, da Nicola Porro, a difendere il Cavaliere, anzi a omaggiarlo della sua dedizione, e si ripete negli studi radiofonici di Un giorno da pecora e nell'arena di Michele Santoro, sfoggiando un sorriso sardonico contro i detrattori del Cavaliere. Quando gli fanno notare che è un uomo di potere, lui fa spallucce, anche perché la sua forza non è misurabile in poltrone, ma nella preferenza di un rapporto che salta tutti i canali gerarchici, bypassa lo stato maggiore di Forza Italia, accende gelosie e invidie non sempre ricomponibili.
Zangrillo è fatto così: persona affabile e cortese, ma dura e determinata. Non ama le mezze misure e certo nemmeno Emilio Fede era mai arrivato a sostenere, come Zangrillo fa tranquillamente, che il Cavaliere ha «doti soprannaturali». E se gli si fa notare che l'aggettivo è un tantino impegnativo e adatto al vocabolario della Corea del Nord, lui risponde serafico: «Ma è la verità. Berlusconi ha capacità pazzesche, capisce al volo e prima degli altri le persone, si applica al lavoro con ritmi infernali, ha una memoria incredibile e quando Tartaglia l'ha colpito, e io ero in macchina in lui, ha avuto il fegato di uscire dall'auto per far vedere al suo popolo che era vivo». Bisogna fermarlo perché potrebbe continuare per ore, ispirato come i trovatori provenzali.
Allo stesso modo, considera «traditori» Alfano e tutti quelli che se ne sono andati, disistima con tutto il cuore il ministro Lorenzin che contraccambia sentitamente e ha prontamente ridimensionato la Commissione sanitaria nazionale di cui lui era vicepresidente ai tempi del duo Fazio-Berlusconi.
A ogni stormir di foglie dalle parti del centrodestra, i giornali ricamano sui suoi possibili incarichi, ma alla fine è sempre ancorato in via Olgettina, dove è anche prorettore dell'università e dove ha condotto una guerra all'arma bianca alle Sigille, un manipolo di signorine che, fra bancarotte e sconquassi, volevano mantenere lo spirito di don Verzé nella cittadella ormai proiettata nell'era Rotelli. E qui attende il giorno più lungo.
Incrociando le dita e fuggendo dai giornalisti, attento a non farsi scappare nemmeno una sillaba, perché la vigilia esige silenzio e rispetto e scrupolosa preparazione, anche se non sarà lui a maneggiare il bisturi, ma sarà lui ad addormentarlo.
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