«Ti dò del tu come faccio con Salvini, il nostro è l'incontro più atteso della giornata». La parabola iniziata con le dimissioni via Facebook non poteva che finire su un divanetto di Barbara D'Urso.
Il segretario uscente del Pd, Nicola Zingaretti, ha scelto per la sua prima intervista pubblica post-addio (con j'accuse grillino ai «poltronari» del suo partito, mancava solo l'evocazione di Bibbiano) il salotto nazional-popolare di Canale 5, lo stesso che aveva difeso appassionatamente dalle ipotesi di chiusura per mancanza di ascolti, spiegando che «porta la politica vicina alla gente». Lei lo ringrazia definendolo «un grande partito politico», lui spiega che la sua è «una bella trasmissione, tanto popolare» e attacca chi lo ha criticato per questo: «Un'aggressione che segnalava che qualcosa non andava», confida. Non dice che è l'amore per la D'Urso ad aver causato le dimissioni, ma insomma è stata una concausa.
Di certo ha scelto un luogo protetto, dove non ci si possono aspettare domande politiche difficili, ma facili gorgheggi emotivi. E così è andata: incastonato tra i Cugini di campagna e l'intervista a Salvini, Zingaretti va a «farsi quattro risate» con Barbara. Assicura che le sue dimissioni sono «irrevocabili», perchè «il Pd non è partito del leader, ci sono tante energie». Nè è «mio obiettivo fare il sindaco di Roma», che però «sarà il mestiere più bello dei prossimi anni, per chi ha passione politica». Non proprio un no netto. Evita di bombardare ulteriormente il suo partito: con le dimissioni voleva solo «dare una scossa» nel timore che il Pd «si chiudesse troppo». Per il resto, sono tutti sorrisoni: innanzitutto per «Barbara», e persino per Salvini: «Ora bisogna stare uniti per fare le riforme, poi si tornerà a combattere».
Una strana deriva nazional-populista, quella di Zingaretti. Tanto che, al di là dei messaggi ufficiali di solidarietà e sostegno e degli inviti a ripensarci, tra i dirigenti dem in molti si interrogano sulle sue reali intenzioni: «Temiamo vogliano tentare un blitz di maggioranza per eleggere un segretario loro, schiacciato sulla linea bettiniana di unità con i grillini e con la sinistra trinariciuta di Leu, che inizi a fare la fronda al governo Draghi», dicono da Base riformista. Uno dei nomi ipotizzati per l'operazione è quello dell'ex ministro Peppe Provenzano
Indizi bizzarri già ci sono: c'è il ministro Speranza che, dall'alto del 2% di Leu, invita in pratica il Pd a confluire nella vecchia sinistra gauchiste. C'è il tragicomico idillio con le Sardine, grandi sostenitrici di Zingaretti. Oppure la surreale polemica para-grillina contro le consulenze di Mc Kinsey (sempre usate da tutti i governi, Conte 2 incluso) sul Recovery Plan, ossia un attacco strumentale ma «da sinistra» al governo Draghi, mosso dall'interno della maggioranza e dello stesso governo, visto che gli animatori sono stati Andrea Orlando, Francesco Boccia, Fabrizio Barca, nonchè il medesimo Provenzano.
Una cosa è certa: l'attivismo pop di Zingaretti non è quello di chi, deluso e scottato dagli scontri interni al Pd, si ritira dalla scena.
É il segnale che una scena, magari nuova, la si sta cercando: che sia il ritorno tipo Conte di Montecristo ad un Nazareno drasticamente spostato a sinistra e tra le acclamazioni, o la candidatura a sindaco di Roma sostenuta da M5s si capirà presto.
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