Il Pd motore di una nuova stagione di governo, che domina un alleato più numeroso ma diviso e smarrito. E alla fine lo ingloba. Era questo lo scenario sognato un anno fa al Nazareno. E invece.
Invece Nicola Zingaretti si avvia ai venti giorni più incerti della sua segreteria. Con l'incubo che possano diventare gli ultimi prima di una resa dei conti che metterebbe in discussione il suo stesso ruolo. La lettera del leader Pd a Repubblica, il giornale che instilla nel suo popolo le ragioni del No al referendum, trasuda nervosismo. Zingaretti ora ha paura di essere chiamato a pagare per tutti.
Il M5s ha evitato l'implosione e con la campagna referendaria sta anche rilanciando la sua tradizionale battaglia anticasta. Giuseppe Conte ha espresso il suo appoggio al Sì poi è sparito, si è autoeliminato dal tavolo da gioco in una fase difficile della sua maggioranza. A rischiare tutto è l'attuale leadership del Pd, che si ritrova una base divisa, parlamentari ribelli come Giorgio Gori e Matteo Orfini apertamente schierati per il No, insieme al padre nobile Romano Prodi. E anche se alla fine trionfasse il Sì, il segretario del Pd faticherebbe a spacciare come successo l'approvazione di una riforma costituzionale contro cui aveva votato tre volte in Parlamento. E se contemporaneamente si avverassero i foschi presagi ventilati dai sondaggi nelle contemporanee elezioni regionali, i più sfavorevoli includono uno scenario di cinque regioni a uno a favore del centrodestra, Zingaretti il 22 settembre potrebbe ritrovarsi in seria difficoltà a evitare la resa dei conti.
Ed ecco spiegati i toni aspri della lettera a Repubblica, in cui il segretario minaccia chi fa propaganda per il No con lo spauracchio delle elezioni anticipate che farebbero perdere il seggio a molti parlamentari Pd: «Non è più sopportabile l'ipocrisia di chi agisce per destabilizzare il quadro politico attuale - avvisa -. Se si vuole indebolire il Pd si chieda apertamente la fine di questa esperienza politica». Zingaretti fa capire che non ci sono alternative: alleanza con gli ex detestati grillini e lui alla guida del partito o elezioni. «Renzi, forse esagerando, consentì che nel Pd si formassero comitati per il No alla sua riforma - rievoca Marco Di Maio, ora in Iv - chissà che avrebbero detto se avesse scritto lui una lettera come quella di Zingaretti contro chi era in dissenso».
E pensare che fino a ieri era Zingaretti a strattonare Conte chiedendo «una svolta» e lamentandosi dei «troppi dossier aperti», aspirando al rimpasto. Oggi è pronto a giurare che va tutto bene, «non c'è alcuna subalternità del Pd», infatti «abbiamo segnato noi l'identità del governo».
E invece è proprio il M5s a gettare una scialuppa di salvataggio con Luigi Di Maio e il presidente della Camera Roberto Fico, pronti a garantire una rapida approvazione delle riforme necessarie a non rendere monco, come è nei fatti, l'assetto delle Camere post taglio dei parlamentari.
Per cercare di sedare i malumori interni, il Pd è costretto ora a inscenare una improvvisata corsa alla democrazia, ma nessuno ci casca. Il 7 si terrà in estremis un dibattito nella direzione del partito per approvare la posizione ufficiale sul referendum, ma il senatore Tommaso Nannicini chiede al segretario di «risparmiarsela se il Sì è già deciso». E ieri si è inscenata una accelerazione della legge elettorale, fissando il voto sul testo base per l'8 settembre. Solo fumo negli occhi.
«Quel testo non sarà mai legge», dice Mariastella Gelmini. Ed evidentemente non è frutto di accordo di coalizione, visto che Italia viva pare decisa ad astenersi e Leu frena. Basterà l'ammuina last minute a salvare Zingaretti?
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