Non sono quattro gatti. «Una porzione del tutto minoritaria ma non irrilevante del movimento degli indignati. Centinaia e centinaia di persone», secondo le stime di Aldo Giannuli, uno studioso dei fenomeni eversivi attento e di matrice progressista. Non possono essere sottovalutati, anzi qualcuno dovrebbe fermarli. La storia italiana troppe volte ha inseguito a scoppio ritardato chi praticava l’odio. C’è un tratto buonista, quasi un riflesso culturale, di parte della magistratura; c’è la sindrome da G8 della polizia che teme di essere accusata di chissà quali nefandezze; c’è il tabù insuperabile della denuncia civile dentro il Movimento.
Com’è come non è, c’è una girandola di nomi che gli archivi della polizia e dei carabinieri conoscono molto bene. Sono sempre gli stessi, sono sempre liberi. Il garantismo, ci mancherebbe, vale per tutti, anche per loro. Ma non si capisce come siano passati indenni da un processo all’altro, da una manifestazione violenta a una devastazione. O meglio, qualcosa si capisce se ci si ferma sulle cronache degli ultimi anni. Prendiamo gli scontri di corso Buenos Aires a Milano, l’11 marzo 2006.
Il solito pomeriggio di devastazioni. In carcere finiscono alcuni giovani, poi nei giorni successivi le accuse cadono, anzi franano: chi era stato filmato a volto coperto non viene poi riconosciuto in aula. C’è stato un errore, anzi una catena di errori nell’investigazione? Sono stati scambiati i pacifici con i violenti? Nel 2008 arrivano però i verdetti. Pesanti. Diciotto autonomi vengono condannati a 4 anni: la sinistra radicale insorge e parla di sentenze inquietanti. I Centri sociali gridano: «Vergogna, liberi tutti». Quasi li accontentano: i 18 sconteranno i 36 mesi in casa. Funziona spesso così. Davanti alle immagini di città nel caos tutti si precipitano davanti ai microfoni e usano le parole come un estintore per spegnere l’incendio. Poi però se le forze dell’ordine vanno fino in fondo, una parte della sinistra protesta e inalbera cartelli. Con le Brigate rosse - per quel che valgono i paragoni- ci fu un duplice atteggiamento ugualmente rovinoso: all’inizio l’attribuire a fascisti travestiti le prime azioni eversive; poi i terroristi diventarono i compagni che sbagliano. Oggi per fortuna non parliamo di sangue, ma indulgenze, contiguità, silenzi dovrebbero essere ugualmente spazzati via.
Il 14 dicembre dell’anno scorso Roma fu saccheggiata dal solito mix di frange anarchiche, spezzoni dei centri sociali, ragazzini surriscaldati e indignati che non sapevano ancora di chiamarsi così. Ci furono fermi e arresti, poi la solita ondata di ripensamenti e scarcerazioni. Come accade con una puntualità esasperante in quel territorio di violenza endemica che è la Val di Susa. Assuefazione e giustificazione, perché tanto il mondo è ingiusto e feroce. Così la violenza diventa un marchio di fabbrica. Anzi, qualcuno diventa un personaggio, appare e riappare sulle pagine di cronaca come i protagonisti delle saghe televisive. Rubina Affronte lancia un fumogeno acceso sul palco della Festa del Pd a Torino, bruciando il giubbotto del segretario della Cisl Raffaele Bonanni.
La denunciano, senza nemmeno il disturbo di un passaggio di cinque minuti in cella: si scopre che studia psicologia ed è figlia, nientemeno, di un magistrato. I suoi amici liquidano Bonanni con toni sprezzanti: «Un fumogeno non ha mai ucciso nessuno. Non piangiamo certo per un pezzo di stoffa».
Lei torna alla militanza, alle marce no-Tav e pure sui giornali perché l’ufficiale giudiziario che va a eseguire uno sfratto nella periferia torinese trova lei barricata in casa. E Rubina diventa un titolo per la seconda volta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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