Lo paghiamo noi europei, ma ne beneficiano i croati. E i nostri soldi se li incassano i cinesi. È il paradosso del ponte di Peljeac (Sabbioncello), due chilometri e mezzo di acciaio e cemento che - grazie a 13 campate di 98 metri appoggiate sui piloni piantati in un fondale marino di oltre 200 metri - collegherà Dubrovnik, l'antica Ragusa, al resto della Croazia. Un'opera audace e indispensabile per mettere rimedio alla stortura geopolitica emersa alla fine delle guerre della ex-Jugoslavia quando la splendida Dubrovnik, meta di oltre un milione di turisti nel 2019, si ritrovò separata dalla propria nazione da un corridoio di 12 chilometri appartenente alla Bosnia Erzegovina. Quell'opera, indispensabile per saltare a pie pari l'assurda frontiera geopolitica, fa però discutere. A costruirla con i fondi dell'Europa è la China Road and Bridge Corporation (Crbc) un'azienda di stato cinese che - oltre a costruire ponti ai quattro angoli del mondo - gioca il ruolo di apripista in molti progetti della Nuova Via della Seta.
Una situazione a dir poco paradossale per un'Europa che ne finanzia uno pur sapendo di dover temere la penetrazione del Dragone nell'area balcanica. Una penetrazione iniziata nel 2012 con l'acquisizione del porto del Pireo e proseguita con la costruzione di una rete di strade, ferrovie e infrastrutture che facendo perno sullo scalo marittimo greco s'insinuano nell'Europa meridionale e orientale. Progetti che oltre ad aumentare l'influenza commerciale della Cina ne moltiplicano il peso politico. Soprattutto sulla scia di una pandemia durante la quale l'Ue è stata percepita non solo come assente, ma addirittura come ostile. L'improvvida decisione europea di bloccare il trasferimento nei Balcani di mascherine e strumentazioni mediche per non mettere in difficoltà i paesi membri è stato percepita, lo scorso marzo, come un'imperdonabile segno di egoismo da parte di Albania, Serbia, Montenegro e Kosovo. Un'indifferenza a cui ha subito sopperito la Cina inviando tutto quel che Bruxelles negava. Proprio quella lontananza di Bruxelles rischia ora di vanificare l'impegno economico offerto dall'Europa per metter fine alla separazione di Dubrovnik dalla madre patria. Dietro quella separazione c'era il ritorno ai confini decisi dalla pace di Carlovitz del XVII secolo. Allora pur di preservare l'indipendenza ed evitare la conquista veneziana, l'antica città marinara di Ragusa si alleò con l'impero Ottomano. In cambio dovette cedere ai turchi la costa settentrionale fino alla citta di Neum, 12 chilometri più a nord. Alla nascita della Jugoslavia tutti quei territori divennero parte di una Bosnia Erzegovina che oggi può così frapporre un doppio valico tra Dubrovnik e il resto dei territori croati. Quel doppio valico con l'arrivo dell'estate e dei turisti diventa un calvario per gli abitanti di Dubrovnik e per i loro connazionali prigionieri di ingorghi, pratiche doganali e file al confine. L'unica alternativa ai motoscafi e ai traghetti è solo un ponte capace di collegare Dubrovnik alla penisola di Sabbioncello, ultima propaggine croata prima di Neum e dei territori bosniaci. Una soluzione prospettata fin dal 1997 quando Ivan Sprlje, al tempo prefetto di Dubrovnik, si rende conto che la Bosnia Erzergovina non ha alcuna intenzione di garantire gli accordi di libera circolazione sui propri territori concordati con Zagabria solo un anno prima. Ma il progetto, adottato dal governo croato già nel 2000, si rivela quanto mai complesso. L'opposizione bosniaca all'opera, concretizzatasi in una serie di eccezioni che minacciano di trasformare il contenzioso in un infinito arbitrato internazionale, viene superata solo dopo sei anni di discussioni. Quel ritardo, oltre ad aggravare i costi, finisce con il far coincidere il progettato inizio dei lavori con la grande crisi economica che dal 2007 si allarga dall'America all'Europa. Così tutto cade nell'oblio fino al 2013 quando la Croazia entra nell'Unione Europea. La richiesta croata di aderire al trattato di Schengen e il via libera europeo previsto, si dice, per il 2022 rendono però ancor più pesante l'incubo del doppio confine tra Dubrovnik e madrepatria. Trasformando quelle sbarre nella frontiera dell'Europa, Schengen renderebbe ancor più pesanti e stringenti i controlli.
Proprio per questo, nel 2017, la Commissione Europea decide di accollarsi il finanziamento dell'opera mettendo sul tavolo 357 milioni di euro pari all'85% dei previsti costi di costruzione. Ma qui nasce l'inghippo. Sorprendentemente la gara per l'appalto viene vinta dai cinesi della Crbc capaci di presentare un progetto che, oltre a costare 60 milioni in meno rispetto a quelli della società austriaca Strabag e del consorzio turco-italiano Astaldi-Ictas, prevede la fine dei lavori con un anticipo di sei mesi . I sospetti di «dumping» ovvero di un artificioso contenimento dei costi praticato dalla Crbc per garantire al proprio socio di maggioranza, ovvero lo stato cinese, una cruciale presenza politica nell'area è immediato. Ma provarlo è impossibile. E così la Cina fa bingo e s'aggiudica - per la prima volta nella storia - una gara per l'utilizzo di fondi europei.
Soldi che finiranno in gran parte in tasche cinesi visto che la Crbc, come tutte le ditte di Pechino, impiega per la maggior parte ingegneri, tecnici e operai fatti arrivare dalla madrepatria. Maestranze che non indossano la divisa, ma rappresentano l'avanguardia laboriosa scelta da Pechino per la conquista dell'Europa.
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