Il prezzo della barbarie

La morte nella stazione del metrò di Londra, l’uccisione dell’uomo misterioso abbattuto, in sostanza, perché correva, intabarrato in un giaccone pur nell’afa di luglio, ci fa comprendere che realmente nulla è come prima dell’11 settembre. La guerra dichiarata dal terrorismo jihadista continua e a poco a poco impone la sua logica. Le autorità del Regno Unito, che si vantavano di mandare in strada i poliziotti senza pistola, agli stessi agenti oggi danno la licenza di uccidere, todos matadores, tutti «007». Ma anche gli agenti sbagliano e il tardivo rammarico di sir Ian Blair ci fa apprezzare lo stile degli inglesi senza, però, dissipare il disagio e l’angoscia per ciò che accade in questi tempi di ferro e di fuoco.
Ci interroghiamo sul giusto e sull’ingiusto, su ciò che è «normale» in una stagione di diritti conclamati e sbandierati e di doveri lasciati nell’ombra, in un angolo poco illuminato della nostra memoria storica.
Sul piano strettamente operativo, puramente militare, la disposizione dei vertici della sicurezza inglese ha una sua funzionalità, imposta peraltro dagli stessi terroristi. Che cosa fare con un sospetto kamikaze? Bloccarlo, circondandolo e immobilizzandolo, perché possa uccidere oltre ai civili anche un bel po’ di poliziotti? Portargli subito un avvocato d’ufficio, perché muoia anche quello? La barbarie è nel terrorismo, non nelle tecniche repressive che si può essere costretti ad adottare. Ferire il presunto terrorista può non bastare, c’è il timore che pur perdendo sangue possa azionare un detonatore, un radiocomando, un qualsiasi congegno di morte. E allora, con suggerimenti che possono apparire cinici e immorali ma che sono soltanto pragmatici, si dice: tirate alla testa, fermate il cervello con pallottole ad alta velocità. Una vita per salvare tante vite, la contabilità atroce della guerra, nella quale si può buscare una palla in fronte soltanto perché non si risponde in tempo a una richiesta di «parola d’ordine».
Allora, va bene così? Non proprio, non sempre, perché la paura è una cattiva consigliera e un agente troppo nervoso può coprire la sua fragilità con la «licenza d’uccidere».
Si può morire, nella terra che ha consacrato i parlamenti e le garanzie costituzionali, soltanto per porto abusivo di faccia sospetta? Un uomo può essere ucciso perché magari è un barbone dal colorito mediterraneo, scappa ogni volta che vede un poliziotto e non ha l’abitudine di variare il guardaroba, privilegiando d’estate i freschi capi in lana superleggera di Tasmania?
E se fosse avvenuta da noi una simile vicenda? In Italia un giovane carabiniere, minacciato da un violento attacco diretto da parte di un manifestante, ha sparato senza avere l’intenzione di uccidere, ma l’attaccante è morto e il carabiniere ha dovuto subire un’istruttoria per omicidio volontario. Fosse successo nel metrò di Roma o di Milano quel che è successo alla stazione di Stockwell, un pool di pubblici ministeri avrebbe messo sotto inchiesta l’intero governo, questori, prefetti, ispettori, brigadieri. Perché da noi l’uso legittimo delle armi è previsto dalla legge, ma di fatto l’interpretazione delle norme e un certo protagonismo politico di talune frange della magistratura hanno svuotato questo istituto. E poi, ove non bastasse una Procura c’è sempre il Tar.
L’Inghilterra è la mamma delle libertà politiche e civili, ma il governo di Sua Maestà ha per tradizione consolidata la forza di regolamentare le risposte ritenute necessarie per fronteggiare emergenze e minacce. Le autorità politiche si assumono responsabilità politiche, rispondono delle loro scelte al Paese, pagano il prezzo dell’impopolarità (e quindi della sconfitta elettorale) se hanno ecceduto in lassismo o in durezza generata dalla paura. Non possiamo fare paragoni, ogni democrazia ha le sue stagionature, si è affumicata con il fuoco della sua propria legna. L’Inghilterra ha affrontato il terrorismo irlandese con metodi e regolamenti che violavano tutte le garanzie costituzionali.
Non facciamo paragoni, ma resta l’angoscia. La storia nuova, quella che si sta facendo in questo preciso momento, bussa alla nostra porta, anche se noi abbiamo l’impressione di non averla invitata.
Dopo l’11 settembre 2001 tutti abbiamo detto che s’era cominciata contro di noi una «guerra asimmetrica», che tutto sarebbe cambiato, che la nostra vita avrebbe conosciuto asprezze, dolori e limitazioni impensabili fino all’anno di grazia 2000. In realtà, la retorica della «guerra al terrorismo» ci ha sedotto, ma in fondo in fondo, nell’angolo più remoto del cuore e del cervello, speriamo che la guerra non ci coinvolga, che ci sfiori soltanto, anche se poi si va in vacanza a Sharm el Sheikh. Non vogliamo credere che la guerra nuovissima sia così feroce, già la seconda guerra mondiale non ha fatto poi tante distinzioni fra civili ed militari.
Ci illudiamo di non essere chiamati a scegliere fra una compressione delle libertà e un certo livello di sicurezza.


Siamo lieti che il nostro governo abbia scelto una linea d’equilibrio, ma se la guerra ci colpisse duramente e direttamente, senza lasciarci illusioni, ci contenteremmo dell’equilibrio?
L’autore di queste righe è ingrassato in sessant’anni di pace e di guerra non guerreggiata, ma fredda. Spera che Londra resti lontana, anche se sospetta che - lo ripete - siamo tutti londinesi. Con le angosce, i dubbi e le paure di quella capitale ferita.

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