Provaci ancora Woody Con i fumetti

Escono le 300 migliori strisce realizzate tra il 1976 e il 1984 dal disegnatore Hample insieme con Allen

Provaci ancora Woody  Con i fumetti

Assorto sulla scacchiera, Woody Allen chiede a lei, carina e anonima: «La nostra magia ormai dov’è?». «Quale magia?», replica lei, spostando il pedone...

Siamo nel 1978. Da due anni, sui quotidiani degli Stati Uniti, escono le strisce disegnate da Stuart Hample. Protagonista, il personaggio/alter ego di Woody Allen. È lui stesso a passare a Hample anni di appunti - si conoscono dal 1955, quando entrambi erano noti solo ai loro familiari - per ispirargli le battute.
L’umorismo da cabaret, che diverrà poi teatrale e cinematografico di Woody Allen è però elitario per un giornale. Senza avere una matita memorabile (Al Capp l’aveva allontanato dai suoi collaboratori), Hample deve adattare la vena di Woody Allen, perché chiunque la colga.

Un lavoro contraddittorio: diffondere un’opera negandola. Nella vignetta citata sopra, per esempio, Hample chiosa il secco e felice dialogo della prima vignetta, in puro stile Allen, con l’osservazione che campeggia nella seconda: «A domanda stupida, risposta deprimente». Già, deprimente.

Con questi problemi, con questa non illimitata abilità nel risolverli, la striscia di Hample uscirà solo finché negli Stati Uniti l’astro di Allen splenderà al massimo. Non stupisce che, nel 1984, data fatidica per la fine delle libertà, anche la striscia abbia fatto il suo tempo.
Passati trentasei anni, l’opera di Hample su e con Woody Allen arriva anche in Italia grazie alla raccolta La vita secondo Woody Allen (Isbn, pagg. 240, euro 29). Sfogliandola, non ci si ruzzola per terra dalle risate, ma essa è l’occasione per riflettere su quanto è andato perduto da allora d’intelligenza nel cinema, e altrove. Si pensi alla carica innovativa di Provaci ancora, Sam di Herbert Ross, scritto e interpretato da Woody Allen nel 1972. Per trovare dialoghi così brillanti occorreva risalire a quelli di Raymond Chandler nel Lungo addio, di più di vent’anni prima.

Qual era, per contrasto, il panorama circostante della comicità cinematografica americana alla fine degli anni Sessanta, una volta finito il ciclo di Jerry Lewis? In attesa che si affermi - brevemente - la cosiddetta New Hollywood (1969-1975), circolano le parodie di 007 nei film sull’agente Flint, con James Coburn, e nei film su Matt Helm, con Dean Martin... E poi ancora altre parodie, come quelle di Mel Brooks, talora indovinate, come in Frankenstein Jr, poi sempre meno riuscite. Idee nuove, zero.

Woody Allen, se non altro, reinventava la comicità rarefatta e pungente di 42ª strada di Michael Curtiz. Era il 1934: dopo era stato imposto il «codice Hays», ovvero l’autocensura, e con la Guerra fredda la censura tout court... Allen segnava la fine di tutto questo, col suo essere più icastico che verboso, più curioso che maniacale, s’apparentava a Peter Sellers. Entrambi ebrei di Paesi anglosassoni, brillavano per eleganza (rispetto ai comici di oggi, almeno), ma esprimevano personaggi opposti: Sellers proponeva la stupidità più forte della difficoltà (Hollywood Party, Oltre il giardino...); Allen l’intelligenza più debole della sessualità. E quella parola negli Stati Uniti, anche dopo il ’68, era comunque compromettente: si ricordino i non remoti, amari destini di Wilhelm Reich e Alfred Kinsey...
Se poi, per Sellers, la sessualità era un disturbo della realtà, per Woody Allen - dal fisico ancor meno prestante - essa era la realtà pura e semplice: un’idea fissa al centro di un cinema che l’aveva per lo più rimossa per quasi mezzo secolo. In Italia tutto ciò parve meno evidente. Pochi ricordavano che Woody Allen aveva scritto e interpretato nel 1965, dunque trentenne, un film di successo vietato ai minori di 18 anni: Ciao, Pussycat di Clive Donner (in originale, What’s New, Pussycat?, cioè «Novità, Fichetta?»).

Che cosa Woody Allen ha significato per generazioni d’italiani si deduce per contrasto da chi faceva incassi allora: Franco Franchi & Ciccio Ingrassia con Ultimo tango a Zagarol, Lando Buzzanca col Merlo maschio, Renato Pozzetto con Per amare Ofelia, Carlo Verdone con Un sacco bello, Diego Abatantuono con Eccezzziunale... veramente. Ricchi o poveri, belli o brutti, questi personaggi non erano né intelligenti, né colti. Corrispondono alla fauna dei reality odierni.

Ma non tutti volevano (vogliono) sentirsi così. Woody Allen impersonava una figura che aveva e ha il suo peso: l’intellettuale. I suoi pugni non devastavano come quelli di Rocky/Stallone? Ma le sue battute erano più temibili delle minacce («Io ti spiezzo in due») dei rivali di Rocky.

Si pensi a Zelig: chi, se non Woody Allen,

poteva rendere con comica amarezza la condizione ebraica, fra assimilazione fino all’estinzione e contrapposizione fino alla persecuzione? Nemmeno Chaplin era riuscito a esprimere un destino con tanta profonda leggerezza.

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