Quando intellighentia faceva rima con violenza

Un saggio dello storico Angelo Ventura racconta il brodo di coltura degli anni di piombo. Ecco chi predicava l’odio fuori e dentro il Pci. Asor Rosa e Mario Tronti invocavano attacchi diretti al capitale e odiavano la parola popolo

Quando intellighentia faceva rima con violenza

Nel 1978 (l’anno terribile della strage di via Fani e poi dell’uccisione di Aldo Moro), Alberto Ronchey scrisse in un editoriale del Corriere della sera: «Nella base militante del Pci, malgrado il costituzionalismo dello stesso Togliatti, l’attesa dell’ora X e la doppiezza dei tempi di Pietro Secchia hanno avuto conseguenze prolungate, fino alle Brigate Rosse». L’affermazione di Ronchey suscitò sdegnate proteste nel mondo comunista, che rivendicò la propria ferma opposizione al terrorismo rosso. Eppure Ronchey aveva detto una cosa giustissima: le origini di tale terrorismo erano da cercare nella «doppiezza» del PCI, coltivata per tanti anni da Togliatti e dal gruppo dirigente comunista. Tale «doppiezza» era consistita nel fatto che, nel secondo dopoguerra, Togliatti escluse recisamente che in Italia si potesse «fare come in Russia» (del resto, era la stessa divisione del mondo decisa a Yalta a chiudere questa prospettiva), e conseguentemente avviò il Pci a una lunga marcia all’interno della società civile e delle istituzioni repubblicane, per conquistarle a poco a poco dall’interno; ma al tempo stesso Togliatti conservò un legame di ferro con l’Urss, e ancorò profondamente il Pci nel mondo comunista plasmato da Stalin. Per questo verso il modello sovietico, presentato ogni giorno dal Pci come una «democrazia superiore», restava la bussola anche dei comunisti italiani. La maggioranza dei quali interpretava quindi come un vero artificio la togliattiana «via italiana al socialismo», cioè la vedeva come una mossa puramente tattica in attesa dell’ora X. Contribuivano a queste credenze anche tutte le analisi che i marxisti-leninisti italiani, grandi e piccoli, diffondevano a piene mani circa la natura del nostro Stato: e cioè che esso era uno Stato creato e controllato dalla borghesia, per tutelare i suoi sordidi interessi. Tale Stato pretendeva di essere qualcosa di universale, e invece era solo uno strumento al servizio di una parte, sicché doveva essere scardinato e distrutto, come Lenin aveva insegnato in Stato e rivoluzione (e il leninismo rimase a lungo la dottrina dei comunisti italiani, se è vero che Berlinguer, in una famosa intervista a Scalfari, rivendicò orgogliosamente la qualifica di «leninista»).

Gruppi di intellettuali marxisti-leninisti, esasperati dal «cedimento» del Psi alle «forze capitalistiche» negli anni del centro-sinistra, chiesero con sempre maggiore decisione una politica «di classe». Si distinsero fra costoro personalità come Alberto Asor Rosa e Mario Tronti (che oggi vengono ripescati e presentati come maitres à penser sul Secolo d’Italia). Costoro invocavano (in riviste e in opuscoli che ebbero larga diffusione negli anni sessanta e settanta) un attacco diretto al «capitale», senza i tatticismi snervanti del Pci; e quindi propugnavano uno «spirito di scissione» contro coloro che parlavano indistintamente di «popolo» (e non di classi irriducibilmente contrapposte), o di «valori» della cultura (come se questa non fosse un prodotto della società capitalistica). La cultura - scriveva Tronti nel 1965 - «è sempre borghese... Se la cultura è ricostruzione della totalità dell’uomo, ricerca della sua umanità nel mondo, vocazione a tenere unito ciò che è diviso - allora è un fatto per sua natura reazionario e come tale va trattato». Occorreva quindi un «lavoro di dissoluzione di tutto quanto già c’è... L’Uomo, la Ragione, la Storia, queste mostruose divinità vanno combattute e distrutte, come fossero il potere del padrone». Non diversamente Asor Rosa, in uno scritto dal significativo titolo Elogio della negazione, affermava che «il riferimento al punto di vista operaio distrugge (...) la possibilità di mantenere in piedi l’unità intellettuale e spirituale della cultura».

Certo, questo non era ancora il terrorismo rosso, ma era il suo presupposto ideale, la sua anticamera teorica e politica: Potere operaio, Autonomia operaia, le Brigate Rosse imbracceranno le armi e metteranno in pratica l’appello alla distruzione del capitale e dello Stato, la dissoluzione della cultura, la pedagogia della violenza e della morte, che erano stati predicati dai suddetti teorici, ma che avevano profonde radici nella sinistra comunista.

Queste considerazioni mi sono state dettate dal bel libro, ancora fresco di stampa, di Angelo Ventura (uno storico che dovette soffrire nella propria carne la violenza brigatista): Per una storia del terrorismo italiano (Donzelli, pagg. 179, euro 26). Lo storico padovano ci ricorda altresì l’attacco che alcuni santoni della sinistra italiana mossero contro i magistrati che indagavano sul terrorismo rosso e sulle sue connessioni con precisi ambienti intellettuali e universitari. Si distinse fra costoro Giorgio Bocca, autore di un pamphlet (dice Ventura) «costruito con documenti e fatti scelti su misura per dimostrare una tesi precostituita, e, quando ciò non basta, col ricorso alla tecnica dell’insinuazione e alla disinvolta manipolazione della verità».

Così - dice ancora lo storico padovano - la tesi del complotto, secondo la quale un non meglio precisato potere politico avrebbe regolato la regia dell’inchiesta giudiziaria contro gli esponenti di Autonomia operaia, era un puro falso, sostenuto sulla base di supposizioni fantasiose. Allora Bocca non aveva nessuna difficoltà (anzi!) ad attaccare i magistrati, nello sforzo sistematico di minimizzare le responsabilità degli ispiratori e dei complici del terrorismo rosso.

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