Aveva molte idiosincrasie, Anacleto Verrecchia (1926-2012), di cui ora l'editore Luni ripubblica Incontri viennesi (pagg. 208, euro 23). La più interessante, letterariamente parlando, era quella nei confronti di Friedrich Nietzsche del quale fece, in La catastrofe di Nietzsche a Torino, un ritratto spietato e però in gran parte veritiero. La più inquietante, per i risvolti etici che poteva comportare, era nei confronti del genere umano, per la cui sopravvivenza non era disposto a sacrificare «nemmeno la vita di un ramarro» La più divertente e condivisibile, mutuata da Georg Christoph Lichtenberg, suo filosofo di riferimento insieme con Schopenhauer, riguardava «i cacalibri», e più in generale gli specialisti incapaci di andare al di là del proprio naso, ovvero del loro ristretto campo di studi e abilissimi nel riciclaggio di sé stessi: «Ricavano un libro nuovo da due libri vecchi».
Il dilettantismo coniugato con un certo gusto per il vagabondaggio culturale e no - era nato in Ciociaria, aveva studiato a Torino, vissuto a Berlino, fatto la guardia forestale nel Parco del Gran Paradiso, l'addetto culturale a Vienn - si univa in Verrecchia al fermo convincimento che arte e vita fossero inscindibili o, detto in altri termini, non si potesse predicare bene e razzolare male, «neppure per uno scrittore. Se una teoria non si traduce in pratica di vita, non serve a niente». In sintesi, se Nietzsche era un pover'uomo, debole, complessato, infelice, la sua filosofia del «superuomo» era farlocca
Va detto che il manicheismo di Verrecchia era mitigato da una vena ironica e da una scrittura effervescente, di cui Incontri viennesi offre un ampio riscontro. Nel libro in questione, inoltre, la solidità culturale del suo autore fa da supporto a una serie di incontri-interviste con giganti del pensiero, da Konrad Lorenz e Carl Popper a Hans-Georg Gadamer, dove intervistatore e intervistato danno vita a una bella gara di intelligenza, fermo restando che Verrecchia è ben consapevole del suo ruolo e, pur non limitandosi «a porre le domande e ad attendere le risposte, come se fossi dinanzi a un oracolo», sa benissimo che quello che interessa il lettore è il pensiero dell'intervistato. È anche per questo che ogni incontro è accompagnato da un'introduzione dove Verrecchia ricostruisce l'ambiente di provenienza e caratterizza le personalità dei soggetti via via incontrati.
Il cuore di Incontri viennesi è la Mitteleuropa, altra bestia nera di Verrecchia. Oggi non è più così, ma c'è stato un tempo, l'ultimo trentennio del Novecento, in cui ci fu una vera e propria smania e mania nei confronti della Finis Austriae, l'impero austroungarico come simbolo di buona amministrazione e di felice multiculturalismo, una sorta di Arcadia del pensiero e dell'azione politica andata in pezzi con la Grande guerra Con questa logica, ironizza Verrecchia, «restauriamo l'impero romano, che era enormemente più grande e anche incomparabilmente meglio amministrato».
Le pagine più interessanti di Incontri viennesi, almeno per me che ho un scarsa competenza sia etologica sia filosofica, sono quelle riguardanti questioni e figure del campo della letteratura. «È un fatto che tra la fine del secolo scorso e l'inizio di questo le Muse si acquartierarono a Vienna e vi fecero alcuni parti geniali. Su grandi personaggi della cultura viennese, quali Wittgenstein, Musil, Joseph Roth e Freud, scomparsi da tempo, ho raccolto le testimonianze di chi li ha conosciuti. È il modo migliore per rievocare la temperie spirituale che animò Vienna fino alla vigilia della Seconda guerra mondiale.
All'elenco sopra riportato manca, semplice distrazione, il nome di Karl Kraus, a cui è infatti dedicato un bel capitolo. Del resto, come scrive Verrecchia, «Vienna senza Karl Kraus sarebbe come una poesia senza consonanti. Questa specie di Menippo del XX secolo fece fischiare la frusta sulla società viennese e la sua rivista Die Fackel si rivelò una postazione micidiale per tutti quelli che cercavano di entrare nel Parnaso con passaporto falso».
Uomo notturno, ricco di famiglia, riformato alla visita di leva perché gobbo, anarchico conservatore nell'animo, malvisto a destra come a sinistra, critico feroce della socialdemocrazia e sostenitore suo malgrado del regime clerico-fascista del cancelliere austriaco Dolfuss, Kraus fu alla fine un isolato in un'Austria che stava abbracciando anima e corpo la Germania hitleriana. È di Kraus la frase «Dio conservi, Dio protegga il nostro paese dall'imperatore», il che spiega perché Joseph Roth non lo potesse sopportare e lo definisse «uno dei becchini dell'Austria», se non il più attivo affossatore della monarchia. È un giudizio riportato da Milan Dubrovic a cui Verrecchia non riesce a non fare una chiosa: «Marcia com'era, non credo che la monarchia avesse bisogno di chi la uccidesse. Basta leggere il diario dell'imperatrice Sissi, per rendersene conto». E così, anche Elisabetta di Baviera è sistemata
Dubrovic conosceva Roth molto bene: erano amici. Frequentavano entrambi il caffè Herrenhof, «un ritrovo di intellettuali, molto simile a un club inglese. C'erano come dei separé e in ogni separé c'era una persona di spicco che dava il là alla conversazione. Roth era una di queste». Piccolo di statura, comune nell'aspetto, «solo quando parlava rivelava energia e temperamento». Nel racconto fatto a Verrecchia, Dubrovic vide per l'ultima volta Roth a Parigi, nel 1937: «Per una quindicina di giorni, fummo quasi sempre insieme. Parlammo soprattutto di politica, ma anche di Vienna e dei nostri vecchi ricordi». All'epoca Roth era un alcolizzato all'ultimo stadio, ma sul suo alcolismo circolano molte leggende, a cominciare da quella, condivisa da Verrecchia, che fosse legato «al dispiacere per la fine dell'impero absburgico». Dubrovic la spazza via: «A Vienna non beveva. Non ricordo di averlo mai visto, qui, sbronzo: incominciò a bere con l'avvento di Hitler. Era molto pessimista e quando i nazionalsocialisti arrivarono a Vienna vide che le sue profezie avevano trovato conferma». È vero però che ebbe «un amore quasi mistico per la monarchia» e anche qui Verrecchia non rinuncia a metterci del suo: «Mi riesce difficile immaginare Roth in ginocchio dinanzi allo stemma degli Absburgo, mentre alza il calice o meglio il quartino».
Annotazioni di questo genere rendono Incontri viennesi un libro godibile, si tratti della bruttezza respingente di Musil, dell'onanismo di Wittgenstein o del pene smisurato di Freud Del resto, come egli stesso nota, «sul palcoscenico siamo tutti più o meno commedianti, ma nel camerino è diverso. Salmi sull'altare e flatulenze in sacrestia». Amen.
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