Era un vero e proprio ostracismo contro i piloti italiani, quello deciso da Enzo Ferrari sul finire degli anni Cinquanta. Doloroso, ma necessario. Per capirlo, bisogna assolutamente immergersi nel mondo di allora. C’erano i moralisti che si scatenavano contro l’automobilismo sportivo ad ogni luttuoso incidente e contro Maranello in particolare.
Nascevano campagne di stampa martellanti, prima ancora che arrivasse la televisione. C’era L’Osservatore Romano che svolgeva un ruolo trainante. Le tragedie della Mille Miglia e di Le Mans furono devastanti. In parte anche all’estero, tant’è vero che i governanti svizzeri, unici al mondo, proibirono ogni competizione. Da noi, il primo colpevole era immancabilmente il costruttore di quegli odiati «bolidi». Se un pilota italiano si immolava, apriti cielo!
«Quando, all’ultima Mille Miglia, per la lacerazione di una gomma - aveva ripetutamente ricordato il caro Ferrari - De Portago uccise sé e altri, io mi trovai moralmente aggredito da ogni parte. Amici, pseudo-amici e colleghi scrivevano al lunedì parole di “ribellione” e di rifiuto “al sangue”, dopo che al sabato avevano incensato il mio lavoro e quello dei miei collaboratori». Al perdurare di queste situazioni, una volta mi disse: «Io ho la pelle delicata. Queste cose mi feriscono profondamente». Eppure, la sua titanica - e il suo cuore - di grandissimo uomo di sport mostrava la doppia natura: inflessibilità con la decisione presa («Mai più piloti italiani, fino a che l’opinione generale non tornerà alla necessaria comprensione, per la natura dello sport automobilistico») e apertura al ritorno tricolore. Così, dal 1958, quando nacque la Formula Junior (nazionale), a quattr’occhi, amava sussurrarmi: «... ma come vanno quei ragazzi?».
Solo nel 1960 arrivò una vera svolta nell’opinione pubblica. I tempi erano maturati. Per la nuova Formula 1 - più sicura - del 1961, Ferrari voleva un pilota italiano, ma in forma discreta e ufficiosa. Ricordo la battaglia che scatenò tra le principali scuderie della Junior, per votare un candidato; poco dopo, mi disse di portargli la successiva rivelazione «Geki».
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