ROMA - Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo discorso celebrativo del Centocinquantesimo in Parlamento ha sollecitato le classi dirigenti a un «esame di coscienza collettivo» ma ha anche sottolineato la necessità di restare uniti.
Da garante dell'unità nazionale ha così preso le distanze dagli eccessi di patriottismo e anche da quelli di revanscismo pur evidenziando che il Paese dispone degli anticorpi sufficienti a esaminare le varie problematiche senza faziosità. Ecco perché è utile conoscere anche un altro tipo di storia, quella con la «s minuscola», scritta da coloro che nel 1861 hanno perso e da quella data non smettono di perdere.
«Centocinquanta anni di bugie» (edizioni Munari, 431 pp., 18 euro) è un saggio di Carmine De Marco, imprenditore e appassionato meridionalista, che si focalizza sullo stato della Nazione nell'epoca immediatamente pre-unitaria. La veemenza con la quale i concetti sono sostenuti può essere tacciata di partigianeria, ma prima di entrare nel dettaglio è doverosa una premessa: ciò che è accaduto dal 1861 a oggi non solleva i meridionali dalle loro responsabilità. Ma occorre comunque comprendere quale fosse la situazione prima che il Regno delle Due Sicilie fosse costretto ad ammainare la propria bandiera.
Alla vigilia dell'unificazione il reame napoletano contava circa 9,3 milioni di abitanti ed era dunque il popoloso degli Stati italiani. Gli addetti all'agricoltura rappresentavano il 33,7% della forza lavoro contro il 34,9% del Nord Italia, mentre gli impiegati nell'industria erano il 16,3% contro l'11,8% del Settentrione. Insomma, il Sud non era poi così arretrato come la storiografia ufficiale tende a descriverlo. La mortalità infantile al Sud nel 1861 rappresentava il 46,2% di quella nazionale, nel 2008 essa rappresentava il 60% circa.
La marina mercantile delle Due Sicilie contava 10.863 navi con 203.318 tonnellate di stazza e 45mila marinai impiegati. Solo il Lombardo-Veneto contava su un tonnellaggio superiore a fronte di una stazza media superiore. Anche il livello delle infrastrutture non era indecoroso considerato che tra Continente e Sicilia c'erano 3mila kilometri di strade. Il valore medio era inferiore a quello di Piemonte e Lombardia, ma poteva considerarsi ben compensato dalla navigazione costiera.
Nel Regno delle due Sicilie non c'erano imposte di successione. Appalti, donazioni e costituzione di società erano soggette alla sola imposta di bollo a differenza del Piemonte che applicava aliquote comprese tra lo 0,1 e il 10% (successione di estranei). La bilancia commerciale del Regno di Sardegna nel quadriennio 1855-58 segnò un disavanzo complessivo di circa 1,5 miliardi di euro ai valori correnti, cifra molto superiore a quella del regno di Francesco II di Borbone. Circostanza testimoniata anche dal fatto che le obbligazioni del Regno delle Due Sicilie sui mercati internazionali dell'epoca quotavano sopra la pari (cioè più del valore nominale) a differenze di quelle sabaude.
L'implosione del Sud, a guardar bene, non sembra perciò giustificata da ragioni economiche. Anche a voler essere estremamente pignoli i fondamentali dell'economia meridionale erano sullo stesso livello di quella settentrionale. Forse una spiegazione plausibile della sconfitta (al di là delle recriminazioni neoborboniche che indicano nell'ignavia di Francia e Gran Bretagna la vera causa della scomparsa del Regno) risiede proprio nell'esiguità della burocrazia. Il Regno delle Due Sicilie aveva la metà degli impiegati di quello sabaudo.
Oggi tutto questo potrebbe sembrare anche un vantaggio competitivo ma all'epoca poter contare su un apparato «fidelizzato» costituiva un fattore decisivo per la tenuta del fronte interno di uno Stato.
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