Ci sono parole che spostano il mondo, frasi che segnano un confine tra ciò che è stato e ciò che non sarà più, discorsi che hanno più forza e potere di un gesto. Mai come oggi, il «Discorso alla nazione», di cui si è da poco celebrata la Giornata internazionale, è diventato la miccia di un futuro prossimo venturo o l'epitaffio che seppellirà carriere di potere, nell'era del nemico invisibile che non conosce confini e delle troppe parole che la civiltà globale disperde ai tempi dei social, demolendo l'impatto del messaggio forte e la sua capacità di trascinare le coscienze. Oggi c'è l'agghiacciante «preparatevi a perdere i vostri cari» di Boris Johnson, l'ansiogeno «l'Europa capisca la gravità del momento o sarà tardi» di Sergio Mattarella, il solenne «è la più grande sfida dalla seconda guerra mondiale a oggi» di Angela Merkel, fino al marziale «siamo un Paese in piedi di fronte a qualunque nemico», sintesi del più difficile discorso mai pronunciato dal giovane re di Spagna. Demolite le autorità istituzionali e morali dal chiacchiericcio quotidiano della rete sarà il tempo a dire cosa resterà degli appelli alla nazione e dei loro destini. Nel «Discorso», con «D» maiuscola, ci sono sempre regole di successo e tempi da rispettare come ha spiegato Christophe Boutin in Les discours qui cont changè le monde, i discorsi che hanno cambiato il mondo: far sentire speciale chi ti ascolta, toccare le corde dell'inconscio collettivo, fare leva più sul sentimento che sulla ragione. Tutto è calcolato anche l'improvvisazione. Poi molto dipende dal carisma, dall'energia nel dare spessore alle parole. Hitler era un mostro anche di oratoria, capace di infiammare le masse solo con la voce. Provava e riprovava gesti e parole davanti allo specchio, il meglio e il peggio di sé lo diede il 30 gennaio 1939, in cui proclamandosi profeta, annunciò per la prima volta in modo esplicito al Reichstag l'annientamento della razza ebraica in Europa. La Storia gli sarebbe crollata addosso. Anche Peron, era un magnifico oratore, capace di adattare le parole al pubblico che lo ascoltava, fiammeggiante e pragmatico, un maestro di retorica a cui gli argentini si ispirano ancora oggi. Prima di essere incarcerato all'isola Martin Garcia, il «peronismo» con un discorso alla radio che lo riporta a furor di popolo alla casa Rosada: «Voglio continuare a essere il colonnello Peron». E così sia.
Ci sono luoghi che ispirano discorsi che non si perdono più e uno di questi luoghi è il Muro di Berlino. È qui che John Fitzgerald Kennedy, il 26 giugno 1963, due anni dopo la sua costruzione grida in tedesco il suo «Ich bin sin Berliner», «Io sono berlinese» che segna, più di un confine, la differenza tra il mondo della libertà e quello dell'oppressione. È qui che Ronald Reagan, due anni prima della caduta, scandisce chiare e forti a Gorbachov, allora ancora padrone dell'Urss, le parole «Tear down this wall!», «tiri giù questo muro». Non erano scritte nel testo del discorso ufficiale, si voleva evitare tensioni con il nemico di sempre, Ronnie invece fece di testa sua. Il Muro cominciò a creparsi lì.
Altri Discorsi diventano un mantra, entrano nel linguaggio comune, fatti a pezzi spesso in mille immagini diverse come il Che Guevara di Andy Warhol. Come l'«I have a dream» di Martin Luther King, Washington 28 agosto 1963, cinque anni prima di morire, 250mila persone: un discorso sull'uguaglianza diventato icona universale e slogan pubblicitario. «È dannatamente bravo» pare abbia commentato Kennedy davanti alla tv. I primi sette paragrafi del discorso erano stati preparati, poi il Reverendo mise da parte i foglietti e a braccio entrò nella Storia. Oppure l'orazione di Winston Churchill che il 13 maggio 1940 davanti alla Camera dei Comuni dove promise «blood, toil, tears and sweat», cioè «sangue, fatica, sudore e lacrime» riuscendo a dare coraggio a un paese spaventato. Non era la prima volta che pronunciava quelle parole, pochi sanno che il papà di quella frase era in realtà Giuseppe Garibaldi. Il giovane Churchill voleva scrivere la sua biografia.
Non porta fortuna a Ben Gurion il discorso conciliante e pacifista con cui proclama lo Stato d'Israele a Tel Aviv il 14 maggio 1948: ventiquattr'ore ore dopo scoppia la prima guerra con i vicini arabi. Cambia i destini della guerra il primo discorso di Charles De Gaulle il 18 giugno 1940, appena nominato sottosegretario di Stato per la Difesa nazionale. Sulle onde di Radio Londra comincia L'Appel du 18 Juin con le parole: «Qualunque cosa succeda la fiamma della resistenza francese non deve spegnersi e non si spegnerà». Nulla sarà più come prima.
Il «Discorso alla nazione» si è fatto cinema, e di successo, con Il discorso del re, la storia, vera, di Giorgio VI, il re balbuziente e del suo logopedista Lionel Logue. E di Charlie Chaplin nel Grande Dittatore, il discorso più famoso della storia del cinema «una sorta di Discorso di Gettysburg di Abraham Lincoln in inglese hollywoodiano, uno dei messaggi di propaganda più forti che abbia sentito», scrisse George Orwell. Rimane a memoria futura il «siate affamati, siate folli» letto da Steve Jobs ai neolaureati di Stanford. Oppure il «fatti il letto la mattina» dell'ammiraglio William H. McRaven ai laureandi dell'Università del Texas, un cult su internet.
«Le piccole cose che cominciate cambieranno il mondo, nulla importa se non la vostra voglia di riuscirci: se non riuscite a fare bene le piccole cose non sarete mai in grado di fare le cose importanti». Sembra scritto per questi tempi reclusi.
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