Non bastavano il rialzo del petrolio e i guai di Napoli e il crollo di Wall Street, in Italia ci si aggiungono pure i sindacati. Angeletti che sorride sotto i baffi, mentre Bonanni si dà un contegno, e parla con la pancia ad Epifani il quale ogni volta fa segno di aver capito, pure quanto non gli è stato ancora detto.
E la solita recita riparte: con tanto di sdegno e il tono di chi si finge appena arrivato, incolpevole dei nostri guai e anzi con la ricetta perfetta per rimediarvi. Stavolta tocca al disastro dei salari. Il trio vi si esercita e reclama tariffe sociali, e inoltre sgravi fiscali per dipendenti coi redditi bassi. Il tutto per una cifra pari a circa un punto di Pil, ma che dopo unattenta sceneggiata alla fine si avvicinerà ai 6-8 miliardi, offerti dal povero Prodi. Cifra che non risolverà la decadenza dei salari. E tuttavia peggiorerà le cose: a riconferma che i sindacati sono parte dei problemi della nazione, che aggravano, e quasi mai della loro soluzione. Travestiti da belle addormentate appena rideste, i tre replicano infatti al boom del petrolio coi sussidi; e scaricano sulla fiscalità la loro politica fallita dei salari.
A sentir loro, comuni e governo dovrebbero finanziare tariffe ridotte su gas, elettricità, acqua, ma pure trasporti ed asili e rifiuti per le famiglie disagiate. Essendo lindice di povertà in Campania e Puglia e Sicilia circa il doppio del resto dItalia, il gesto implica unovvia prebenda per il Meridione. Premia poi le famiglie di extracomunitari, la cui immigrazione, di scarsa qualifica, ha abbassato e non elevato la produttività del lavoro. Lesito di questa idea malaccorta e che saffida al redditometro, sarebbe pertanto solo di estendere il parassitismo. Il rimedio vero sarebbe invece laumento di produttività. Ma le sinistre sono in ben altro occupate: al Sud con gli extracomunitari stanno costruendo la loro base elettorale, e non lefficienza della nazione. Come dimostrano i casi di Bassolino e della sindachessa di Napoli. Seconda questione: i redditi del lavoro dipendente nel settore privato sono lesito di errori ripetuti. Infatti i salari sono stati immolati dai sindacati almeno da una quindicina danni. Nel 1992 le quote dei salari e dei profitti erano circa le stesse. Le ritroviamo oggi invece distaccate e di non poco. In altri termini sè lasciato crollare il potere di acquisto dei salari, mentre i profitti crescevano. E perché ora il conto dovrebbe pagarlo il contribuente, e non i profitti della Confindustria? Che centra chi ha ora la colpa di guadagnare almeno 40mila euro allanno col fatto che i sindacati in un boom dei profitti hanno tradito il lavoro? Lasciando tra laltro salire tra il 96 e il 2001 la pressione fiscale delle imposte dirette sui redditi da lavoro dipendente dal 15% al 17,4%. Il tutto pur di pensionare la gente prima del tempo e sussidiare la spesa pubblica e gli stipendi degli statali il cui vantaggio è migliorato rispetto ai salari del settore privato.
I rimedi al disastro dei salari sarebbero insomma ben diversi. Si tratterebbe di rifare lo Stato diminuendo la spesa pubblica e il numero degli statali; e per questa via calare le tasse. Il che aiuterebbe la crescita di produttività delle imprese, e non del numero degli immigrati, utili finora solo ad abbassarla. Invece i risvegli dei sindacati in posa di belle addormentate, e le loro idee, purtroppo sono come il governo: fuori tempo. Tanto più in questa crisi delleconomia mondiale. Ma come è possibile pensare di tamponare con più tasse e sussidi un caro petrolio destinato a non finire? Fin dove infatti potrebbe spingersi ad esempio lonere del sussidio? Sarebbe più sensato diminuire semmai il prelievo fiscale sui carburanti. Ma implicherebbe di diminuire allora la spesa pubblica, un gesto opposto a quello di chi ha sprecato questo ciclo economico quand'era positivo. Figuriamoci adesso che la crisi del credito, del dollaro e del petrolio lo stanno rallentando. Eppure né i sindacati, né il governo paiono volersene accorgere.
Geminello Alvi
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