Quel sistema

È scontato arrivare a Napoli, contare i sacchi di spazzatura sparsi attorno alla stazione, ascoltare i consigli da zona di guerra del tassista, persino chiosare il commento di una splendida autoctona sulla «città che puzza». È meno scontato arrivare a Napoli e trovare un assessore regionale, diessino per giunta, preso a male parole dentro l’oasi blindata di una libreria Feltrinelli, dove la gente si mette in fila alla cassa e si siede compita ad ascoltare presentazioni.
Eppure questo è successo martedì scorso al «più bassoliniano degli assessori regionali», Andrea Cozzolino. Ed è ancora meno scontato che ciò accada al dibattito su un libro, e che questo libro impietoso e illuminante, L’altra metà della storia (Guida editore) sia opera di Marco Demarco, direttore del Corriere del Mezzogiorno, già vicedirettore dell’Unità e punto di raccordo di quella parte sempre più cospicua di borghesia progressista napoletana, intellettuale e delle professioni, che non tollera più Antonio Bassolino. O sarebbe meglio dire il bassolinismo, una meccanica della politica che ha fondato «un inedito sistema di potere, forse il più vasto e radicato che mai sia stato realizzato nell’ambito della città» e che quattordici anni dopo la sua inaugurazione si ritrova la spazzatura a metafora del vivere civile.
Aurelio Musi ha accusato il libro di un «eccesso di revisionismo» e si capisce perché: riletto in chiave storica, il saggio di Demarco si rivolge a una sinistra che non ha mai capito troppo bene Napoli, oscillando dall’assuefazione alle degenerazioni della napoletanità all’utopismo della «teoria del salto», quella forma di meridionalismo che promette il balzo improvviso dall’oscuro passato democristiano a un non ben specificato futuro radioso. Bassolino, dunque, è l’ultimo anello di una catena che parte, con l’aiuto di intellettuali e registi cinematografici come il Francesco Rosi de Le mani sulla città, con la fabbricazione di falsi miti: la partecipazione comunista alle «Quattro (invero tre) giornate di Napoli» del 1943, la sinistra unico baluardo contro la speculazione edilizia, il laurismo - giudicato al contrario «l’unico momento alto della destra napoletana al potere» - fonte di tutti i mali insieme a Gava e Cirino Pomicino, sino all’emergenza camorra che magicamente scompare dall’agenda pubblica nel 1993, quando Bassolino diventa sindaco di Napoli dichiarando guerra ai qualchecosisti e ai nonsipuotisti. Ecco, di quelle giornate radiose, sostiene Demarco, resta solo il ricordo di una promessa non mantenuta e la foto accecante della Napoli di oggi con i cadaveri appoggiati su pizze margherite e l’amara constatazione che «con la diversità berlingueriana non si è risolto il problema del traffico, o quello della camorra, o quello della spesa pubblica».
Certo, Bassolino ha portato gli artisti nel metrò, ha fatto il museo d’arte contemporanea, ha promesso il Rinascimento, s’è circondato di intellettuali compiacenti e di una società civile anestetizzata, ma questo veltroniano «salto nell’effimero», questo ossessionato concentrarsi «sulla comunicazione pubblica e sulla personalizzazione istituzionale» lo racconta meglio la pietanza della Coppa America annusata a Posillipo e consumata a Valencia. Capitolo dopo capitolo, Demarco porta alla sua tesi fatti e cifre.
Si doveva fare il megaparco a Bagnoli sulle ceneri d’acciaio dell’Italsider? Nulla s’è mosso. Si doveva snellire la pubblica amministrazione? Le spese correnti sono moltiplicate: anzi, il «grande collocatore» col suo partito personale ha riproposto il partito della spesa pubblica ingrassando le società miste con «eserciti di consulenti». Si doveva internazionalizzare? La Campania attrae lo 0.45% degli investimenti esteri in Europa. Si doveva risolvere l’emergenza rifiuti, che è una finta emergenza visto che dura da trent’anni? Resta altro, restano le gare d’appalto gestite in modo improprio, le accuse al Bassolino commissario per i rifiuti sulle ecoballe che non sono eco e che non vengono bruciate ma stoccate in aree dove prosperano le speculazioni sulla vendita dei terreni, resta pure lo scandalo buttato in televisione di 2400 lavoratori socialmente utili assunti a tempo indeterminato per la raccolta differenziata e occupati, sì, ma a far nulla. Così, in una memorabile autodifesa, ’o governatore s’è difeso sostenendo di non aver mai letto i contratti di concessione. Resta che quella sinistra che quindici anni fa scendeva in piazza contro le ecomafie porta in dote ai posteri «una regione in cui è concentrato il 43% di tutti i siti inquinanti d’Italia».
Morale della storia: «Sta di fatto che un potere crescente, carismatico, istituzionale e commissariale, non ha prodotto gli effetti sperati. Sette miliardi e settecento milioni di euro in fondi europei, un miliardo per l’emergenza rifiuti, oltre sei miliardi spesi per la sanità». Cifre enormi, da capogiro contabile. E invece «nonostante le molte risorse ricevute o anticipatamente impegnate» Bassolino ha fallito nel «portare Napoli e la Campania fuori da un’orbita neo-assistenziale». Di più.

Rispetto al 1993, sul cumulo sozzo delle crisi se n’è aggiunta un’altra, la «reciproca delegittimazione del centro e della periferia dello Stato», nel sonno incosciente della società civile. Frutto acidulo di un potere irremovibile, invincibile, saldato tutt'uno con il cemento dei palazzi della politica.

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