Per odiare, per perseguitare a volte basta una lettera. La lettera araba “nun” iniziale di “Nassarah” Nazareno è tornata ad essere di questi tempi il simbolo dell’odio anti-cristiano. I decapitatori dello Stato Islamico l’hanno impressa all’entrata di ogni casa di Mosul occupata da un cristiano. Chi abita lì non ha scelta. Deve pagare la “jizya” o morire. In alternativa può fuggire abbandonando casa e averi nelle mani dei nuovi conquistatori. Nel medio evo la “jizya”, la tassa sulla protezione dovuta da tutti i non musulmani caduti sotto la dominazione islamica, era la regola. Oggi quei secoli bui sono tornati prepotentemente e odiosamente attuali. Succede nei territori del nord Iraq caduti sotto il controllo dei seguaci del Califfato. Succede in Siria ovunque regnino i ribelli dell’Isis o quelli alqaidisti di Jabat Al Nusra. I due gruppi jihadisti, nemici sul terreno fino al punto da combattere una guerra costata molti morti, applicano nei confronti dei cristiani la stessa legge. Anche in quella Siria dove San Paolo predico il Vangelo sei secoli prima dell’arrivo dell’Islam i nazareni sono costretti a ricomprarsi il diritto di sopravvivere. Per conseguire la dhimma, ovvero il permesso di praticare la propria fede sotto la protezione dei nuovi signori, i cristiani devono sborsare una tassa proporzionale alle loro rendite. Quella “nun” dipinta in rosso all’entrata delle case diventa così il simbolo dell’odio per la croce, per la civiltà occidentale, per tutto quello che è raziocinio e civiltà . In Occidente pochi se ne sono accorti. Pochi hanno prestato attenzione ad una lettera vermiglia trasformata nella sottile linea rossa tra tolleranza e genocidio, tra convivenza e sterminio.
Ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia svoltasi in questi giorni a Roma, qualcuno non ha voluto dimenticarlo . In uno stand allestito apposta per ricordare la sorte dei cristiani di Medioriente quel simbolo dell’odio e delle persecuzione è diventato un braccialetto bianco da indossare. Un modo come un altro per dire “sono anch’io Nazareno, sono anch’io Cristiano”. Farlo in Europa, farlo in Italia o addirittura a Roma, sede del Vaticano può sembrare una facile banalità. Ma non è così. L’assalto ai cristiani di Siria culminato nell’assedio all’antica cittadella di Maaloula, la persecuzione dei nazareni di Mosul e del Nord Iraq sono avvenuti sotto gli occhi sonnecchiosi e indifferenti di un’Italia e di un’Europa abituate a dimenticare le proprie radici religiose e culturali. Così mentre italiani ed europei si stracciavano le vesti per la lotta dei popoli islamici, mentre qualcuno s’illudeva di veder sorgere un “islam democratico”, mentre qualcuno intravvedeva nel cosiddetto islam politico una nuova via politica e sociale, i cristiani venivano assaliti, perseguitati e talvolta massacrati. Per questo indossare quel braccialetto non è privo di significato. Indossarlo significa non solo lottare per il diritto alla vita dei cristiani, ma ricordare a quei nostri fratelli nella tradizione, che quanto succede a loro potrebbe succedere a noi se l’onda del fanatismo s’allargasse all’Europa. Non a caso Giorgia Meloni ha regalato quello stesso braccialetto a Serzh Sargsyan, il presidente dell’Armenia arrivato a Roma nei giorni di Atreju per inaugurare Parabole d’Oriente, la mostra del Vittoriano dedicata alle comunità cristiane del Medioriente. Nelle parole del presidente Sargsyan quelle immagini raccolte tra Siria, Iraq, Libano e Turchia “sono il grido muto del Cristianesimo colpito nella propria culla”.
Parole fin troppo discrete sussurrate per ricordarci che esattamente un secolo fa la comunità armena venne sterminata sui territori di quella Siria dove oggi si torna ad imporre la jizya. Ma il rischio di un nuovo genocidio non verrà cancellato se vedendo quel braccialetto, leggendo la lettera “nun” e riconoscendovi il simbolo dell’odio non sapremo gridare “Siamo tutti cristiani”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.