Su il sipario. La filodrammatica dell’antimafia non rinuncia a nessun trucco del buon teatro di mestiere. C’è tutto. C’è il fantasma del padre che aleggia come un portatore postumo di verità. Il padre mafioso, il padre disonorato, il padre che custodisce memorie e segreti che da vivo non ha mai voluto rivelare. Il padre che nell’aula di giustizia di Palermo sconta e redime il suo passato. Il padre che arriva dall’aldilà e parla con la voce del figlio. Massimo Ciancimino è la voce narrante di questa storia. È lui che, sempre in nome del padre, ricostruisce il passato, parla di un patto scellerato tra lo Stato e la mafia. Dice che è da qui, da queste acque nere, che nasce Forza Italia. Dice e sdice. Affonda e fa un passo indietro. Parla in tribunale e chiarisce il senso delle sue parole sui blog. In questo polpettone grottesco il «coro» commenta quello che accade non sul palcoscenico, ma dietro le quinte del ciberspazio. Così se Gianfranco Micciché scrive sul suo blog: «Solo fandonie». Ciancimino su un altro blog smentisce se stesso e risponde: «Lei durante le mie dichiarazioni in aula non c’era. Ho sempre escluso, avendolo appreso da mio padre, ogni coinvolgimento diretto del presidente del Consiglio Berlusconi con ambienti mafiosi». Sembra un blob più che un blog. Un frullato di parole che cercano disperatamente di leggere una storia mai scritta.
Ma qui lo spettatore si perde. Ciancimino accusa e assolve, butta fango nella mischia, genera caos, parla, parla, parla senza riscontri, come un profeta, come se la verità arrivasse da un demone o da qualche dio pagano. Sono pezzi di rivelazione che scorrono sulla catena di montaggio dell’informazione. Giuseppe D’Avanzo ne prende un pezzo e ci costruisce sopra un predicozzo alla Savonarola, Eugenio Scalfari ci ragiona su e la domenica dopo porta a colazione un pistolotto di etica, Michele Santoro quelle parole le decora con qualche immagine tv e le pilota con chiacchiere salottiere. E gli editorialisti si interrogano sul senso della giustizia.
Quello che resta come polpetta avvelenata da distribuire in campagna elettorale è l’equazione mafia uguale Forza Italia. Non c’è una prova. Non c’è una logica. Non c’è una dimostrazione matematica. Ma quello che conta alla fine è l’equazione. L’equazione di un morto, di un fantasma che ha trasformato un tribunale in una seduta spiritica, con tutti quei procuratori vestiti di nero che sembrano i medium di una giustizia metafisica. Roba da convitati di pietra, e forse non è un caso che, in quest’era di vampiri cinematografici e politici, cali sui processi un’atmosfera gotica.
Questo è oggi quello che accade a Palermo. Un tempo c’era una Procura che lottava in trincea contro la mafia e pesava ogni parola di pentito, e prima di considerarlo attendibile lo interpretava, cercava conferme alle sue parole, rintracciava i fili del suo gioco. E soprattutto si assicurava che quel tipo non fosse un attore, un mestierante con qualche canovaccio scritto da altri, uno di quelli che sbircia uno straccio di trama e poi recita a soggetto. Questa era l’antimafia. Poi un bacio di Salvatore Riina trasformò la principessa delle Procure in un rospo. E ora fa concorrenza a Pirandello se non addirittura a Zelig. Ingaggia personaggi in cerca d’autore come Gaspare Spatuzza. Insegue l’uno nessuno e centomila. Dice: così è (se vi pare). Mette in scena il gioco delle parti.
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