«Poi, già alle elementari i primi accenni di epica classica, mitologia greca e orientale ma anche le saghe nordiche», ha detto pochi giorni fa Giuseppe Valditara, ministro dell'Istruzione e del Merito illustrando i nuovi programmi per «bambini e adolescenti dai 3 ai 14 anni». Cogliamo la palla al balzo, come facevano un migliaio d'anni fa i piccoli, futuri cavalieri, e suggeriamo un'integrazione: una spolverata di «materia di Bretagna», con re Artù e i suoi ospiti seduti intorno alla Tavola Rotonda. Del resto, i principî cavallereschi si riverberano nelle opere della triade Dante-Petrarca-Boccaccio, e poi anche da quelle parti intingono la penna il Pulci per il Morgante e l'Ariosto per l'Orlando furioso. «Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori...», esordisce messer Ludovico, mettendo in chiaro fin dal primo verso di che cosa si tratti. È vero che in quel caso il suo riferimento ideale è il mondo di Carlo Magno ma, se ci è concesso parlare volgarmente di letteratura nobile, con il britannico Artù al posto dell'imperatore il menu non cambia molto. Infatti, gli ingredienti base del romanzo arturiano sono «amore», «onore» e «avventura». «Minne», «êre» e «âventiure» scrive in tedesco medio, tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo, lo svevo Hartmann von Aue. Autore tanto scarno per le notizie pervenuteci su di lui quanto polposo per la sua importanza geo-letteraria, avendo introdotto in terra germanica i poemi cortesi, grazie alla sua conoscenza del francese, dopo essersi esercitato su Erec et Enide di Chrétien de Troyes, best seller del 1170 circa, nel 1200 circa si getta su un'altra opera dello stesso autore, Yvain, la più seminale.
Iwein, alla tedesca, è ora disponibile in italiano con traduzione, introduzione e note a cura di Maria Rita Digilio (Leo S. Olschki Editore, pagg. 221, euro 30) e, oltre a essere una galleria dei temi cavallereschi e cortesi che innervano, a volte sotto traccia, la letteratura medievale, ce ne fornisce anche una lettura critica, che non indulge sul bello e sul buono, ma si sofferma spesso e volentieri sul brutto e sul cattivo. E questo in virtù del quarto concetto cardine, dopo «amore», «onore» e «avventura», che compare in apertura: «Chi sa volgere il suo cuore/ a giustizia e a bontà...». Il combinato disposto della «rehte güete», «giustizia e bontà», sembra voler sottolineare Hartmann, non è scontato, non è nel Dna di nessuno, nemmeno in quello di Artù, ma va coltivato costantemente e con «misura», «mâze», senza pigrizia ma anche senza strafare. L'interprete malizioso potrebbe pensare: certo, qui parla un tedesco, e oltretutto un tedesco «ministeriale», un «dientsman», al servizio di una famiglia aristocratica, quindi un intellettuale di estrazione molto diversa rispetto a quella del francese Chrétien, chierico coltissimo e ospite abituale delle corti di Maria di Champagne e di Filippo d'Alsazia, perciò particolarmente incline, diciamo così, a vedere «la vie en rose»... In effetti, qui Iwein opera extra moenia, fuori dalla comfort zone domestica degli eletti. Se all'inizio lo vediamo immerso negli ozi di corte, ambiente peraltro descritto come una crème afflosciata su se stessa, dopo aver udito dal diretto interessato, suo cugino Kâlogrenant, la narrazione di un'avventura fallimentare, si scrolla di dosso la patina di accidia e parte.
Nel mondo vero, fuori dalla campana di vetro arturiana, si parrà la sua nobilitate. Digilio tocca il punto dolente: la questione identitaria. «La scoperta di sé avviene attraverso le relazioni che egli intrattiene con gli altri: quella intima e amorosa con la moglie Laudîne e l'ancella Lûnete, che di quest'ultima rappresenta una sorta di alter ego; quella amicale con Gâwein, rappresentante per eccellenza della comunità dei cavalieri arturiani; infine, quella che di volta in volta imbastisce con la fitta rappresentanza delle bisognose e dei bisognosi nei quali si imbatte».
Le risposte di Iwein agli eventi sono spiazzanti. Artù annuncia una missione per vendicare Kâlogrenant, e lui lo brucia sul tempo, con un atto di superbia. Dopo aver ucciso il «signore della fonte» ed essersi innamorato della vedova Laudîne, accetta di sposarla appendendo il cappello al chiodo. Gâwein (Galvano) lo invita a nuove zingarate e Laudîne a malincuore acconsente, purché torni a casa entro un anno, e lui sfora abbondantemente. L'ancella Lûnete quasi sorpassa Laudîne nel suo cuore e lui va fuori di testa, inselvandosi. Rimesso in sesto dal classico unguento miracoloso di Morgana, steso un conte piuttosto aggressivo, dribblate le profferte di una contessa, salvato un leone dall'aggressione di un drago e domesticato il felino come un micio, quando si accorge di essere tornato a casa per sbaglio, giustamente si vergogna come un ladro. A un certo punto in agenda ha due impegni che si sovrappongono: salvare Lûnete (che è quasi la sua segretaria) e formare una task force con Gâwein per recuperare la regina Ginevra, rapita, e dà la precedenza all'ancella. È coinvolto da due sorelle in una spinosa questione di eredità; libera trecento fanciulle; fa fuori, grazie al leone, due giganti e, quando sarebbe il momento di tirare il fiato, ecco il colpo di scena. Per una serie di equivoci, è chiamato, alla presenza di Artù, al duello al buio con Gâwein: né l'uno né l'altro possono riconoscersi. Il testa a testa viene interrotto prima del tie break per il calare delle tenebre e i due finalmente di riconoscono. Seguono baci e abbracci.
L'interminabile catena di riprese in esterna si chiude con Laudîne che si riprende quel marito scavezzacollo, ormai così lontano, nel corpo e nell'anima, dallo spirito cortese, da sembrare un borghese.Ebbene sì, prode Valditara, fra le (vecchie) nuove materie, metta un pizzico di «materia di Bretagna» affinché i bimbi imparino subito a distinguere l'onore dai colpi di culo e l'ignominia dalla sfiga.
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