Quell'italiano che mandò il primo uomo sulla luna

Dopo quarant'anni un libro racconta la leggenda della "tigre di Cape Canaveral", il figlio di un carabiniere emigrato da Potenza negli Stati Uniti che fu l'anima di tutte le più importanti missioni spaziali

Quell'italiano che mandò il primo uomo sulla luna

Forse non molti sanno che a mandare il primo uomo sulla luna fu un italiano. «3,2,1...gooo». Erano le 9.32 del 16 luglio 1969 quando, dalla consolle di comando della "fire room" numero 1 di Houston, Rocco Anthony Petrone dette il via alla missione Apollo 11. Accanto a lui Wernher von Braun e, incollati alle televisioni in bianco e nero di tutto il mondo, miliardi di occhi increduli. Il 21 luglio gli astronauti Armstrong, Aldrin e Collins toccarono il suolo lunare. Una storia incredibile, quella di Rocco, raccontata ora da Renato Cantore nel bel libro "La tigre e la luna" (edizioni Eri). Perché la tigre? Ma perché l'italo-americano era soprannominato dai colleghi della Nasa "la tigre di Cape Canaveral". E per capire il perché, basta scorrere la biografia di un uomo in cui convivevano inflessibile tenacia e una memoria prodigiosa che, racconta chi ci ha lavorato, lo faceva assomigliare a un computer. "Quando mio figlio mi domandava perché fossi sempre assente - raccontava Petrone ai pochi cronisti che riuscivano a incontrarlo - io gli parlavo delle grandi conquiste dell'uomo e dello straordinario privilegio che lui e milioni di persone sparse nel mondo avrebbero avuto nell'assistere alla conquista della Luna. Soffrivo, ma non ho mai avuto dubbi. In otto anni di preparazione, dai razzi Saturno ai primi lanci di Apollo, ho accumulato più esperienza tecnologica di quanta una persona normale ne faccia in tutta la vita. E arrivai all'appuntamento sicuro di poter contare su una squadra eccezionale".
La leggenda comincia nel 1926 quando ad Amsterdam di New York nasce Rocco, il figlio terzogenito di un carabiniere nato a Sasso di Castalda, un paesino in provincia di Potenza abbandonato per cercare fortuna negli Stati Uniti. Un lavoro nel settore dei trasporti, ma papà morì quando il piccolo aveva appena sei anni. Fu il cugino, docente ad appena trent'anni che aveva conosciuto quanto lui le sofferenze della fame, a intuirne le grandi capacità. Soprattutto per la matematica e lo indirizzò agli studi tecnici. Dopo gli ottimi voti scolastici, Petrone partecipò a un concorso per entrare nella prestigiosa Accademia militare di West Point. Concorso che vinse, nonostante le origini italiane, un grave handicap nel 1943, in piena seconda guerra mondiale. "La mamma e gli zii - ricorda Rocco - ci tenevano molto a che la prima generazione americana dei Petrone facesse strada e l'ingresso all'Accademia mi diede una nuova identità, nonostante odiassi il militarismo". Dopo il servizio militare in Germania, Petrone si iscrisse al celeberrimo Mit, il Massachussetts Institute of Tecnology di Boston. Davanti a lui si schiudevano le porte della carriera militare, ma c'era anche la remota possibilità di uscire dalla divisa per entrare nei progetti spaziali. Affascinato dalle tecnologie aeree e dai missili, ma contrario agli impegni militari, Petrone colse al volo l'opportunità e in due anni conseguì la laurea in Ingegneria meccanica per poter far parte del Progetto Redstone e della squadra di Von Braun e Debus, scienziati tedeschi riconvertiti alle scienze aerospaziali.
«Furono anni indimenticabili - ricorda - Eravamo tutti amici e tutti convinti che mai e poi mai un missile avrebbe potuto portare l'uomo sulla Luna, io per primo. Quando arrivammo, nel 1953, Cape Canaveral era solo una landa desolata con una carovana di zingari e tante zanzare». Divenuto maggiore, Petrone fu assegnato allo Stato Maggiore a Washington, ma a toglierlo dalla naftalina ci pensò il presidente John Kennedy. Quando chiese a Kurt Debus se fosse possibile inviare un americano sulla Luna entro il 1969, questi rispose: «Sì, a patto che mi diate un certo Rocco Petrone che adesso si annoia in un ufficio del Pentagono».
Da quel momento l'ingresso nella leggenda della conquista dello spazio progettando le rampe di lancio, mettendo in orbita satelliti e astronavi per migliaia di tonnellate, dirigendo il lancio dei razzi del programma Saturno e Apollo, e guadagnandosi la fama di duro. Tutti gli anziani tecnici della Nasa lo avrebbero ricordato negli anni sempre intento a interrogare, uno per uno, i suoi 150 tecnici addetti alle manovre: domande formulate con meticolosa precisione cui bisognava rispondere con altrettanta precisione o con il completo riesame del problema. "Lo chiamavano tigre per i suoi interrogatori - ricorda Tony Reichardt di Air&Space Magazine -, ma erano indispensabili. La lista delle operazioni che bisognava eseguire sul solo Modulo lunare (il famoso ragno Aquila che atterrò sul suolo lunare) per essere sicuri che tutto funzionasse a dovere, era grande quanto il libro della Bibbia. E ogni riga di questo libro significava una giornata di lavoro. Non potevano esserci distrazioni, pena il tragico fallimento dell'intera missione".
Un fallimento che l'ormai pensionato ingegnere poté toccare con mano, in prima persona, durante le tragiche prove di lancio dell'Apollo 11 quando, nel 1967, vide bruciare sul proprio schermo a circuito chiuso gli astronauti Grisson, White e Chaffee che pagarono il prezzo di un'incredibile leggerezza tecnica. Da allora il «tigre» non permise più alcun errore. "Nei tanti anni passati in sala comandi, tutti mi chiedevano se fossi stato io a premere il bottone che ha portato l'uomo sulla Luna. Ho sempre ripetuto la risposta di Eisenhower: il merito è di tutti coloro che hanno preso parte all'impresa. Io mi sono limitato a controllare quello che facevano gli altri. Ma se la spedizione si fosse risolta in un disastro, la colpa sarebbe stata senz'altro del sottoscritto".
Quel 20 luglio 1969 andò tutto bene e valse al colonnello di Sasso di Castalda la promozione a direttore del programma Apollo, a Washington, al posto del leggendario Samuel Philips. "Quando Apollo 11 sbarcò sulla Luna ricevetti tantissimi attestati d'affetto dai miei parenti italiani. E in tanti anni di vita ricordo sempre il mio primo viaggio fatto in Italia. L'ultimo tratto dovetti farlo in un taxi azionato a manovella.

Quando arrivai a casa di mia nonna, rimasi interdetto dalla sua indifferenza e scoprimmo insieme che la lettera spedita due mesi prima per farmi riconoscere e presentarmi, arrivava con lo stesso taxi che aveva trasportato me. Da allora non riuscii mai più a dimenticare di essere figlio dell'Italia.

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