La questione curda e le paure degli Usa

L’Europa ha accolto l’esito delle elezioni in Turchia con interesse, qualche sorpresa, diverse speranze e un disagio tenuto sotto il tavolo. L’America vi reagisce con altrettanto riserbo diplomatico ma con una partecipazione molto più viva in quanto più urgente. Mi spiego: per gli europei il problema centrale è quello dell’eventuale ingresso di Ankara nella Ue, un evento che se e quando verrà potrà essere decisivo per il futuro volto, in primo luogo culturale, del nostro vecchio continente, che geograficamente è pur sempre una penisola dell’Asia; ma una decisione in proposito è ancora lontana, nei decenni più che negli anni, così come è accaduto in passato: i turchi siedono in anticamera da un quarantennio.
Washington, invece, i conti li fa sul calendario, quello appeso alle pareti degli uffici del Pentagono e della Casa Bianca, se non addirittura consultando l’orologio. Perché se l’esito delle urne dovrà avere conseguenze internazionali, insomma se ad Ankara ci fosse una svolta, essa non si paleserebbe per prima cosa nei palazzi comunitari di Bruxelles bensì tra le montagne di quello che i suoi abitanti chiamano Kurdistan ma che sugli atlanti anche modernissimi compare come una zona estesa a quattro Paesi, ma con due fulcri: uno in Turchia e l’altro in Irak. Non è solamente storia: decine di migliaia di soldati turchi (qualcuno dice addirittura 140.000) sono stazionati alla frontiera fra i due Paesi, col dito sul grilletto, pronti a usare la forza in risposta ad attacchi che potrebbero venire in ogni momento al di là di quella linea di confine che teoricamente è con l’Irak ma in pratica nel Kurdistan iracheno l’autorità di Bagdad è nulla, e scarsa assai è anche la presenza militare Usa.
Questo per un motivo semplice: la guerra in Irak concerne molto indirettamente l’area curda, perché fra l’altro vi è secondaria la contesa fra sunniti e sciiti, non vi si verificano eccidi a sfondo religioso. Un curdo può essere sciita o sunnita ma per lui l’identità settaria è infinitamente meno importante di quella etnica e l’indipendenza, cercata per lunghi decenni con le armi e sotto una dura repressione, è in pratica acquisita dalla conclusione della guerra del Golfo più di quindici anni fa e consolidata dall’abbattimento per mano americana dell’unico regime, quello di Saddam Hussein, veramente interessato a un Irak unificato. Adesso quel poco di sovranità reale che esiste nel Paese è tripartita e i curdi sono stati gli unici a trarne vantaggio. Gli unici, a salutare con sollievo l’invasione Usa del 2003 e a mantenere rapporti buoni od ottimi con le autorità americane, anche militari. Dei tre pezzi in cui l’Irak è stato smontato, l’unico che sostanzialmente funziona è il Kurdistan.
Funziona, anzi, troppo bene dal punto di vista turco. Politicamente perché la pratica esistenza di almeno un embrione di Stato curdo indipendente non può che incoraggiare le ambizioni analoghe, il vecchio sogno di creare un altro Kurdistan nella Turchia sudorientale per poi eventualmente unirlo con l’altro e con pezzi di terra che si potrebbero staccare dall’Iran e dalla Siria. Ma le ripercussioni immediate sono anche militari: nelle contrade montagnose più vicine al confine turco si sono raggruppati gli esuli nazionalisti fuggiti da nord e le milizie armate anche di organizzazioni minoritarie come il Pkk, di tradizioni e di ideologia comuniste. Uno spauracchio doppio per i comandi militari turchi che si sentono garanti non solo della sopravvivenza dello Stato laico fondato da Atatürk ma anche della sicurezza territoriale e della intangibilità delle frontiere. È inevitabile che un Kurdistan in pratica indipendente offra asilo a coloro che il governo dell’Ankara considera terroristi. È comprensibile che i comandi militari siano tentati da una azione preventiva. E ciò metterebbe in gravi difficoltà l’America, che nel Medio Oriente ha tre «amici» (Israele, Turchia e i curdi) e che dunque teme un conflitto fra i due ultimi.
Che cosa cambierà in questo scenario dopo le elezioni? Il giudizio prevalente a Washington sull’esito lo vede con un certo favore. Si è rafforzato il partito degli «islamici moderati», che è considerato il male minore, ma si è rafforzata anche l’estrema destra nazionalista, che guarda con particolare apprensione ogni mossa dei curdi che possa preludere a una secessione e che ha stretti legami ideologici con le forze armate.

Potrebbe ancora prevalere e in questo caso Washington rischierebbe di perdere un alleato importante e di vedere un incendio in più fiammeggiare in Irak, nel momento in cui la guerra è sempre più impopolare e la fiducia nella politica di Bush è ai minimi storici. Ci mancherebbe solo l’apertura di un terzo fronte, anche solo diplomatico che metterebbe in contrasto la Grande Strategia con quella ogni volta rabberciata nell’antica Mesopotamia.
Alberto Pasolini Zanelli

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