Se vuoi annusare senza la mediazione del maxischermo che aria tira alla Fiera di Roma, devi improvvisare un contrabbando illegale di badge. L’immersione tra i delegati conferma plasticamente che il Popolo della libertà è un popolo uno, e non la somma dei rivoli correntizi dei soci fondatori, che distribuisce consensi e applausi senza badare alle precedenti appartenenze. Dentro il padiglione incandescente della Fiera c’è l’Italia, quella nazionalpopolare impropriamente vestita a festa e quella siliconata, quella grezza e quella sofisticata, quella conservatrice e quella rivoluzionaria, ci sono anche i dipendenti pubblici che piangono di commozione assieme a Renato Brunetta. Non c’è una società armata contro nemici da liquidare. Sotto i tricolori della giornata di ieri è possibile osservare pezzo a pezzo una nazione plurale. E questo è un bene, perché il pluralismo delle idee, che è baluardo culturale idoneo per la democrazia di partito, rischia la sterilità retorica se non si incarna.
Pluralismo, dunque. Sarebbe follia anche solo pensare che un partito enorme per voti e rappresentanti come il Pdl possa definire la linea politica cercando unanimità su ogni tema. Il pluralismo chiede di essere rappresentato da personalità che si intestino la sua articolazione. Bisogna cominciare ad allenare l’analisi al fatto che il confronto tra partiti è stato sostituito a un confronto nel medesimo partito, è politica questa, e la politica ieri si è affacciata con passione nel post-congresso.
A questo proposito, che le personalità di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini non siano esattamente sovrapponibili non è uno scoop giornalistico, che la loro concezione della politica, del governo, della forma-partito non sempre coincida, nemmeno questo lo è. È invece una buona notizia che il Pdl da ieri abbia trovato in Gianfranco Fini, accanto ma non in contrasto con Berlusconi, i due applauditi dallo stesso popolo, un leader che dà voce e rappresentanza all’anima laica, istituzionale e doverista del centrodestra. Un’anima che individua nella coesione sociale, nel patto Nord-Sud e nel patto generazionale le tre dimensioni della solidarietà. Un’anima che, promuovendo l’“etica del dovere” come battaglia culturale, l’educazione civica come suo strumento e la legalità come imperativo politico, dice agli italiani che l’Italia bisogna meritarla e sceglierla come splendida fatica quotidiana. Un’anima che non si scorda dell’eclettismo culturale della destra italiana quando ridefinisce in chiave inclusiva il concetto di identità nazionale, offrendo una prospettiva ai “nuovi italiani”. Un’anima che non nega il valore pubblico della religione ma combatte la sua manipolazione politicista, scegliendo di dar voce a quella parte, minoritaria in Parlamento ma maggioritaria nella società, che sulla vicenda del testamento biologico esprime posizioni diverse dal testo votato al Senato. Con serenità, senza fratture, perché il pluralismo non spacca, arricchisce, dona pure il piacere momentaneo dell’essere minoranza.
Fini ha chiesto al suo partito di gettare lo sguardo oltre la fine della legislatura, e ha chiamato il Pdl, partito costituente, a farsi motore di una grande stagione costituente per la «democrazia decidente», sfidando la sinistra sulla capacità di modernizzare le istituzioni. È dentro questo scenario che va contestualizzato il suo appoggio al prossimo referendum sulla legge elettorale: il presidenzialismo chiama il bipartitismo. E il bipartitismo, ma pure il bipolarismo postideologico, esigono una competizione leale e non demonizzante con l’avversario.
Qui a fianco, ieri, Peppino Caldarola ha spinto la sinistra a farla finita con l’antiberlusconismo, adesso va chiesto al centrodestra di archiviare per sempre l’anticomunismo in ogni sua forma, anche quella criptata. In Italia il problema non è quello dei nipotini del comunismo, è quello di un’opposizione cadaverizzata, a pezzi perfino nelle isole di microegemonia del mondo intellettuale, indebolita nelle roccaforti sindacali, afona su media incapaci di fare opinione pubblica.
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