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Questo don Benedetto somiglia a Nietzsche

Una lettura asistematica di Croce fa dello storicismo l’«essenza del pensiero contemporaneo»

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Tenendo conto della ben nota e perdurante disinformazione culturale che in genere vige in Italia a fini strumentali e di parte (ma non solo) non è poi tanto difficile intuire perché le grandi idee liberali di Benedetto Croce non sembrano oggi dire granché alle menti di un pubblico italiano coltivato, giovanile o meno, e però assuefatto ad una scolarità «filosoficamente corretta», vale a dire fin troppo influenzata da varianti marxiste, positiviste, esistenzialistiche e da correnti intellettuali sorte in contrasto più o meno diretto con lo storicismo idealista di uno dei maggiori pensatori del nostro XX secolo. Indicato a suo tempo per astio e a torto dal marxista Antonio Gramsci quale «Papa laico della borghesia», Benedetto Croce ha subìto nel secondo dopoguerra italiano una damnatio memoriae pari quasi a quella che in genere la limitante e limitata cultura di sinistra ha imposto alla valutazione del fascismo (di cui pure il Croce fu un rigoroso e severo avversario politico e morale) con effetti fuorvianti sul piano del pensiero e di una più salda consapevolezza storica.
A parte i pochi cultori rimasti di una legittima «scuola crociana» (con tutti i pregi e difetti) anche molti studiosi di impronta liberale si sono però progressivamente allontanati dalla centralità di quel pensiero nella presunzione di aggiornarlo vuoi in direzione del marxismo (vedi il tentato e mai risolto connubio di «libertà» e «giustizia sociale») vuoi adattandolo alla dottrina politica di un presunto «liberalismo perfetto» che, nel cavillare sui limiti del potere dello Stato, alla fine sfocia in una fragile quanto astratta architettura di concetti. Di ben altro tenore è invece il vigoroso e drammatico storicismo crociano, pensiero liberal-conservatore ma tutt’altro che reazionario, fervido testimone di quella «religione della libertà» che il filosofo trasse dal revisionato idealismo di Hegel dopo un efficace bagno di realismo positivo (Vico, Herbart, Marx) a fondamento di ogni autentica conoscenza dell’uomo e della storia: «La perfezione di un filosofare - così Croce riassumeva il bilancio del suo pensiero - sta nell’aver superato la forma provvisoria dell’astratta “teoria”, e nel pensare la filosofia dei fatti particolari, narrando la storia, la storia pensata».
Questo sentimento del particolare storico inteso come concetto filosofico (la storia «come pensiero e come azione») designa il liberalismo aristocratico (opposto a democrazia ed egualitarismo socialista) di Croce, il cui pensiero della libertà - privilegio destinato agli spiriti colti, totali e spirituali in quanto «legioni devote all’ideale» - sovrasta gli eventi storici e le loro variegate configurazioni politiche. È proprio questa virile «concezione della vita» che il giovane studioso Corrado Ocone rivendica oggi come nucleo portante e attuale del pensiero crociano in una riflessione piuttosto originale rispetto ai toni prevalenti della saggistica filosofica (Benedetto Croce. Il liberalismo come concezione della vita, Rubbettino, pagg. 200, euro 14). Dopo avere messo a punto i limiti dei maggiori critici liberali di Croce in quanto «riduttivi» della sua filosofia (dal liberal-socialismo di Calogero alle istanze giusnaturaliste di Carlo Antoni), Corrado Ocone si addentra nella struttura del pensiero crociano e ne rivaluta il primato del «fare» come occasione della conoscenza storica (il vichiano «verum ipsum factum») abbracciando però per estensione la stessa teoria del giudizio: irriducibile, secondo lui, ad un vero e proprio «sistema».
Egli perciò considera la famosa suddivisione della attività spirituale in categorie distinte (Estetica, Economica, Pratica, Logica) poco più che un espediente pragmatico adottato dal Croce per ordinare il suo «liberalismo senza teoria» in cui su tutto prevale la individualità del giudizio come «particolare coloritura passionale che diamo ai fatti». Così inteso, lo storicismo di Croce farebbe a meno di ogni coerenza logico-formale (residuo del pensare «metafisico») in nome di una apertura variabile alla esperienza individuale e immanente della vita. Siffatta lettura asistematica del pensiero crociano (e delle sue più irsute difficoltà: la dottrina dei «distinti» fu da sempre il punto debole di quella filosofia) serve all’autore per esaltare l’attualità di uno «spregiudicato» storicismo quale «essenza del pensiero contemporaneo».
Questa idea della filosofia come opera aperta al «darsi effettivo» dell’individuo e della realtà - che forza il pensiero di Croce accostandolo piuttosto alla «gaia scienza» di Nietzsche che non al panlogismo di Hegel - suggerisce e impone però un distinguo. Ocone esalta a ragione la concezione liberale come «fervore» e «amore» nonché come capacità di concepire la legge della vita «come impossibilità per l’uomo di farsi tutto bene o tutto male». E presenta di conseguenza Croce quale interprete del più nobile «ideale umanistico», anti-totalitario in politica, e in un certo senso anche anti-gnostico, alla stregua dei principali moralisti europei del XX secolo. Ma rispetto ad una simile importante conclusione l’ipotesi precedente di una «teoria del giudizio» fin troppo relativista non persuade come dovrebbe. Il relativismo teoretico, infatti, non ha né può avere per definizione un centro di identità intellettuale e morale (e tantomeno un fondamento «umanistico»).

Attribuire dunque senza mezzi termini un simile modo di conoscenza - verso il quale sembra propendere Ocone - alla filosofia crociana potrebbe alla fine compromettere proprio quella idea di liberalismo come «centro» o universale «concezione della vita» che lo stesso autore ha invece voluto mettere così opportunamente in luce nel rivalutare il pensiero e l’opera di Benedetto Croce.

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