"Racconto la brutalità da cui nasce la tolleranza e la libertà monarchica della Gran Bretagna"

Lo scrittore con "Oblio e perdono" torna alla rivoluzione inglese per spiegare l'oggi

Una lunghissima caccia all'uomo attraverso le colonie americane fondate da pochissimo, una Gran Bretagna travagliata dalla fine del dominio repubblicano di Oliver Cromwell e dal ritorno della monarchia. Il tentativo di dimenticare la guerra civile che fa a pugni con la precisa volontà del nuovo monarca, e di chi gli sta attorno nel consiglio privato, di punire nel sangue tutti coloro che sono stati strettamente coinvolti nella condanna a morte di Sua Maestà Carlo I (1600-1649). E per precisa volontà di punire si deve intendere far finire prima eviscerati e castrati, da vivi, e poi squartati tutti coloro che hanno firmato la sentenza e coloro che l'hanno eseguita. Tra questi i colonnelli Edward Whalley e William Goffe, che nel 1660 cercarono scampo attraversando l'Atlantico e riuscirono, nascondendosi per anni, a sfuggire alla cattura. Questa è la vicenda narrata da Robert Harris in Oblio e Perdono (Mondadori, pagg. 438, euro 22), romanzo storico che porta il lettore alle origini dell'Inghilterra moderna, e nel cuore del Secolo di ferro, quel XVII secolo che ha dato l'impronta all'Europa portandola verso la tolleranza religiosa, ha visto gettare il seme dei futuri Stati Uniti, ma si è anche distinto per una violenza fanatica che non ha avuto eguali sino al Novecento. Harris, giornalista e scrittore di fama mondiale (basta pensare a romanzi come l'ucronico Fatherland e alla trilogia di Imperium) è venuto a presentare in Italia il romanzo - i cui diritti sono già stati venduti per realizzare una serie televisiva ai produttori di Downton Abbey - e sarà a Bookcity Milano sabato (alle 12 al Castello Sforzesco). Lo abbiamo incontrato per farci raccontare perché, come sostiene sempre, «certi eventi del passato ci condizionano sempre e la storia si può anche cercare di cancellarla, ma inevitabilmente ritorna».

Robert Harris, perché ha scritto un romanzo storico che racconta la caccia ai regicidi di Carlo I?

«I motivi sono tanti. Questa vicenda mi consentiva di indagare il legame tra America e Inghilterra, di indagare le profonde divisioni dell'Inghilterra di quel periodo. E poi la fuga di due dei regicidi verso l'America alla fine era una vicenda quasi western ed era perfetta per un romanzo».

Ci sono personaggi storici reali, come i due colonnelli in fuga, ed altri inventati. Fatti certi e altri in cui lei ha lasciato spazio alla fantasia: come si trova l'equilibrio tra questi due versanti in un romanzo storico?

«La mia regola d'oro è di non scrivere nulla che io sia sicuro non sia avvenuto. In questo caso c'erano molti fatti certi, nomi, date. Negli spazi vuoti tra queste cose mi sento libero di inventare per caratterizzare i personaggi, usare gli strumenti della narrativa per far capire al lettore cosa potrebbe essere passato per la testa degli uomini di quell'epoca».

Richard Nayler, il personaggio che guida la caccia ai regicidi è inventato. Come l'ha caratterizzato?

«C'è molta rabbia dentro questo libro, incarna la rabbia di chi dopo il ritorno della monarchia voleva vendetta a tutti i costi, di chi vide in quell'evento più di un crimine, un vero sacrilegio. Poi l'ho caratterizzato con un lutto personale, la morte della moglie, che lo rende particolarmente implacabile verso Whalley e Goffe. È un depresso maniacale che non riesce a concepire il perdono. È un personaggio che amo perché volevo mostrare la condizione psicologica di entrambe le parti».

Eppure nonostante tutta questa ferocia, la rabbia accumulata e il fatto che i diversi schieramenti si sentissero titolari della volontà di Dio, alla fine l'Inghilterra riuscì ad approdare alla tolleranza religiosa. Ci insegna qualcosa su come si può raggiungere la pace anche nelle situazioni più complesse?

«Il fatto fondamentale fu la capacità di creare una sorta di amnesia, la capacità di dimenticare. In questo caso, esclusi i regicidi condannati, si riuscì a raggiungere un nuovo equilibrio, una tolleranza pragmatica figlia dell'oblio, che poi ha caratterizzato tutta la storia dell'Impero britannico e che è un retaggio prezioso. Un ruolo importante ha poi avuto la Chiesa d'Inghilterra che alla fine è riuscita a tenere insieme dei quasi cattolici e dei protestanti convinti».

Cosa resta di questa vicenda nell'Inghilterra moderna e non solo in Inghilterra? Siamo in un periodo in cui spesso si cerca di cancellare la storia...

«Credo sia importante parlare della rivoluzione inglese, è avvenuta molto prima di quella francese e di quella russa, e ha lasciato tracce permanenti. Ad esempio è in questo contesto che la nascita delle prime colonie americane, così fiere ed attente alla loro libertà religiose si colloca. In nuce ci sono gli Stati uniti di oggi, e anche il fatto che i temi religiosi restino così importanti negli Usa, è il Dna dell'America moderna. Dopo la morte della Regina Elisabetta per la prima volta dopo secoli la Gran Bretagna torna ad avere un re che si chiama Carlo come Carlo I e la monarchia in questo momento è fortissima e vista come un elemento stabilizzante del Paese. Uno storico marxista molto famoso, che adesso è morto, Eric Hobsbawm, una volta mi ha detto che una monarchia costituzionale è il posto migliore, il posto più civile, in cui vivere. Da le migliori garanzie per vivere e questo la dice lunga sui risultati di questa rivoluzione. Dopo la Gran Bretagna non ha più attraversato fasi di grande violenza e la monarchia ha avuto un ruolo stabilizzante e di terzietà che si è visto anche nella Brexit. La storia non si cancella, torna sempre».

Lei ha scritto il libro durante i lockdown per il Covid?

«In parte sì, durante il secondo lockdown. E in effetti mi ha aiutato a rendere le sensazioni di queste persone in fuga, spesso costrette a nascondersi in spazi angusti per lunghissimo tempo».

Abbiamo parlato di ristabilire la pace, di storia che ritorna. Cosa pensa dell'attuale vicenda Ucraina?

«L'indipendenza Ucraina per me è un imperativo morale, detto questo, l'attuale guerra che si

combatte nei luoghi che conosciamo dalla Seconda guerra mondiale, e che si combatte con modalità che rimandano al passato è proprio la dimostrazione che la storia come dicevo non si cancella, e spesso torna con percorsi simili».

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