Ramat, vita in versi per rimanere attaccato al mondo

Raccolta in volume l’opera poetica: dal 1958 a oggi, un’autobiografia per frammenti sempre fedele a se stessa

Nell’introduzione al volume che raccoglie l’intera opera poetica di Silvio Ramat (Tutte le poesie, Interlinea, pagg. 1.442, euro 50), Giuseppe Langella scrive: «Ramat ha adottato, en poète, un modo tutto suo di attraversare la vita», e cita un passo in tale senso chiarificatore: «È vero, non si pasce/ unicamente di poesia, un poeta:/ ma dove ha il mondo una più viva semina/ che nei solchi della scrittura?». Di fatto in Ramat si ravvisa, incontrovertibile, la necessità dell’esercizio poetico, che costituisce il suo ancoraggio al mondo, il freno alla «corsa del tempo», per usare un titolo achmatoviano. Sembra quasi che senza il mestiere del poeta (spesso ricorre, nei suoi testi, l’allusione alla concretezza del mestiere, appunto, al componimento «ostinato ad aprirsi/ il suo varco tra le grinze di un foglio»), senza la giornaliera applicazione, egli possieda una troppo labile consistenza, quasi fantasma tra oggetti e persone egualmente fantasmatiche. Questo libro è testimonianza, dunque, di fedeltà alla pagina, di versi «per non morire» (come «per non dormire» erano quelli dannunziani), e di un’accanita, instancabile ricerca di sé nelle infinite forme che l’espressione lirica di volta in volta gli conferisce. Autobiografia per frammenti, esso rappresenta - al di là di qualsiasi altra attività di Ramat (nato a Firenze nel 1939, insegna da trent'anni letteratura italiana nell’ateneo patavino) - l’unico signum nel quale egli intenda riconoscersi, e che non rinneghi.
Le poesie sono ordinate cronologicamente per composizione, perciò le raccolte appaiono diverse da come uscirono la prima volta; ma certo la sistemazione è la più adatta a seguire passo passo il percorso dell’autore, attraverso gli anni e l’assommarsi delle esperienze vissute. L’arco temporale va dalla prima raccolta, Le feste di una città (1958-1959), all’ultima, sino a oggi inedita, Il nome al vento (1999-2005). A ben guardare, difficile parlare di evoluzione o di sostanziale «spostamento», nella poesia di Ramat; ma piuttosto di fedeltà a se stesso, nel chiuso cerchio di una poetica che non conosce oscitanze o sbavature. Possono cambiare i modi (ma non poi molto), col progredire della pratica del verso, ma le tematiche che si affacciano sulla pagina nelle prime raccolte resteranno le medesime, sia pure affrontate in modi sempre nuovi - non foss’altro per motivi meramente biologici.
Così la vocazione retrospettiva, forse la più potente vena che alimenti il fiume di questa lirica, si annuncia precocemente: nel riandare alla propria educazione alla poesia, ad esempio, che è già in Gli sproni ardenti, del 1961-1964 («per giorni e giorni ti educasti/ a poesie d’ombra»: Il Mugnone tra primavera e estate); o ai luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, davvero per Ramat luoghi dell’anima, il cui ricordo gli avvolge il petto con la confortante dolcezza e il severo memento di uno scapolare. Intere opere - prima fra tutte Mia madre un secolo (1999-2000) - sono in fondo delle intense saghe familiari e amorose, e il canto appare il solo possibile modo per contrastare l’oblio, forse quanto Ramat maggiormente teme, se non per sé, per le creature che ha amato.
La sua opera si configura quindi come una lunghissima educazione poetica, più che sentimentale, laddove ogni emozione ha a che fare con lo sguardo penetrante del poeta, colui che la realtà sa trasformare in personale esperienza, in materia di canto; e soprattutto quando tale realtà pare sfuggirgli nelle sue linee generali e nelle minute: ancora Langella descrive giustamente una poesia che non si limita a definire i contorni delle cose, ma le decanta nelle sue ampolle, traendole nuovamente alla luce più chiare e più vere. Una sorta, insomma, di lavacro rituale che coinvolge l’io e il mondo, in una continua, domestica liturgia con cui sconfiggere il senso di inappartenenza, lo sgomento profondo dinanzi a quanto non siamo più in grado di ravvisare.
L’ultima raccolta, Il nome al vento, è disseminata di indizi riconducenti ad una fine non paventata, nonostante alcune immagini terribili nella loro efficacia («né ha sonno, mai, la Morte»); e vi è più che mai il senso nostalgico del passato («Ho tanto di quel passato davanti,/ da sgranare, vivendolo, anche il tempo»): quello della scuola e dell’università, di un quartiere di Firenze in cui abitava, di volti e voci scomparsi.

Il passato che commuove, coi suoi umili vessilliferi (una vecchia fotografia, una canzone, l’immagine di un film), semplicemente perché è passato, e induce alle lacrime: lacrime facili, che sgorgano nascoste, come capita a chi ha tanto vissuto («mio mondo saccheggiato dal dolore»): perché il cuore non regge alle emozioni accumulate, perché desidera anch'esso riposare. E questa impudicizia dell’età matura, il coraggio nel mostrarsi debole, arreso, è per noi il dono più prezioso.

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