RICHARD DE BURY Il suo regno per un libro

Bulimico collezionista e ricettatore di manoscritti, inviava emissari ovunque per accaparrarsi i pezzi più pregiati

RICHARD DE BURY Il suo regno per un libro

«La mia gloria sono i libri che ho letto», diceva Jorge Luis Borges, e sei secoli prima il motto avrebbe potuto essere sottoscritto da Richard d’Aungerville, o Aungervyle, ovvero Richard de Bury, dalla località in cui nacque nel 1287, Bury St. Edmunds nel nord-est d’Inghilterra, bibliofilo e vescovo della bella città di Durham, che in quel tempo doveva difendersi dagli attacchi dei turbolenti scozzesi.
Se ve ne fosse bisogno, Riccardo de Bury, come poi fu conosciuto in Italia, è un ulteriore esempio di quel mutamento di clima culturale che nella prima metà del Trecento segna la nascita dell’uomo moderno, con la sua forma nuova di stabilire contatti, con la sua mobilità a motivo di studi o commerci, con la vitalità delle università che punteggiano l’Europa, da Padova a Oxford a Parigi, con l’invenzione dell’arte in quanto arte, consapevolezza che sarebbe stata il germe del Rinascimento, con la riscoperta e il culto archeologico dei classici antichi, basti pensare al Petrarca, uno degli emblemi dell’uomo nuovo.
Un filo sottile ma preciso unisce Petrarca a Riccardo de Bury: si conobbero e frequentarono ad Avignone, nel 1333, e Petrarca rievocò in seguito quelle circostanze in una delle lettere Familiares, inviata a Tommaso Caloiro, discutendo della collocazione della leggendaria isola di Tule, che doveva trovarsi all’estremo settentrione del mondo, di cui Petrarca aveva chiesto notizia a Riccardo «venuto alla Sede Apostolica per trattare affari del suo re». Il nuovo amico inglese gli aveva promesso che, una volta tornato in patria, avrebbe cercato di approfondire i troppo vaghi accenni degli autori antichi riguardo a Tule, ma non aveva mai risposto, nonostante le sollecitazioni di Petrarca.
Come spiegarlo? Può darsi che, proprio allora, le tappe della carriera di Riccardo de Bury accelerassero la corsa. Egli aveva studiato filosofia e teologia a Oxford, preso i voti di benedettino, era diventato precettore del principe Edoardo di Windsor, figlio di Edoardo II e di Isabella di Francia, e s’era trovato coinvolto negli intrighi che portarono alla deposizione del re, dovendo fuggire a Parigi, dove erano riparati la regina e il figlio, e correndo anche il rischio della vita, scampato nascondendosi in un campanile dei frati minori. Ma quando nel 1327 il principe divenne Edoardo III, l’avanzamento di Riccardo fu rapido: come cancelliere del re, era stato mandato per due volte in missione ad Avignone da papa Giovanni XXII, la seconda volta quando incontrò il Petrarca nel 1333, e poco dopo il ritorno fu nominato dal papa vescovo di Durham, e all’inizio del ’34 tesoriere del re.
Se trascurò il contatto con Petrarca, altri ne curò, diventando un protettore di studiosi e soprattutto un collezionista di libri, un ricettatore di manoscritti (non solo di testi noiosissimi, come le esaltazioni dello stile curialesco romano di Tommaso da Capua, ma anche delle rime eleganti di Pier della Vigna, seguace della scuola siciliana). Come dice Carlo Carena, curatore di una nuova edizione dell’opera che Riccardo de Bury scrisse negli ultimi anni della sua non lunga vita e per cui è rimasto famoso, Philobiblon. La passione per i libri (Allemandi, pagg. 244, euro 50), egli non faceva altro che leggere e dir messa, nella sua camera era difficile muoversi per le pile di libri, e «istituì con lungimiranza e rese pubblica per lo studio e il prestito una biblioteca a Oxford, non limitata ai testi religiosi e giuridici, ma estesa a quelli profani e poetici».
Anche questa edizione del Philobiblon, che gode di una vibrante e ironica premessa di Ernesto Ferrero («noi siamo quel che leggiamo, così come siamo quel che mangiamo. La bibliofilia è una forma - non grave - di bulimia»), e di una ricca appendice iconografica curata da Novella Macola, con la riproduzione a piena pagina di una cinquantina di ritratti del Quattro e del Cinquecento in cui compaiano libri, e che per quanto posteriori non paiono incongrui al volume, potrebbe apparire intimorente o remota rispetto agli interessi e alla sensibilità del lettore di oggi. Eppure la freschezza del suo testo, malgrado i passaggi obbligati dei rimandi alle Scritture e le citazioni dei classici, rimane intatta.
«Si diceva di me ch’ero divorato da tale brama che chiunque otteneva il mio favore più facilmente con un manoscritto che con una somma di denaro», egli confessa. Riccardo perlustra biblioteche sia private sia pubbliche, incetta, manda emissari, fa copiare, ripara pagine e dorsi. Approfitta forse della sua autorità: «Allora si aprivano armadi di famosissimi monasteri, si schiudevano gli scrigni, e si spalancavano le casse... Libri un tempo finissimi, poi diventati guasti e ripugnanti, ricoperti da feccia di topi e perforati dai morsi di vermi, giacevano inerti».
Egli si mostra attento a ogni dimensione dell’universo librario: come ordinare la biblioteca, quale sia il pericolo dei ladri che tagliano i margini bianchi per farne carta da lettera, quali siano le avvertenze da impartire agli scolari, che paiono suscitare in lui una certa veemenza: «Probabilmente ti capiterà di vedere un giovane duro di cervice e pigro nello studio, il quale nell’algida stagione invernale sgocciola dal naso, senza degnarsi di pulirlo col fazzoletto prima di aver bagnato con quella schifosa rugiada il libro sottostante. Ha le unghie zeppe di sterco puzzolente, color carbone, e con esse segna il luogo dov’è l’argomento che gli piace».
È un po’ triste pensare che Riccardo de Bury, il 14 aprile 1345, sia morto povero e nudo, longa infirmitate decoctus, senza neppure una tunica addosso, a quanto pare depredato di tutti i suoi effetti personali dai servi, mentre si credeva fosse ricchissimo, lasciando alla sacristia i suoi paramenti sacri, e alla biblioteca di Oxford i suoi libri, i quali però, caricati su cinque carrette cigolanti, scomparvero nel nulla, a parte due codici ora al British Museum.

Per completare la beffa del destino, e senza nulla togliere ai pregi del Philobiblon, c’è chi ultimamente, ci informa Carlo Carena, contesta addirittura la paternità di quest’operetta a Riccardo de Bury, attribuendola al suo cappellano, Robert Holcot.

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