Per ricordare Victor Zaslavsky, contro tutti i totalitarismi

La persistenza dell’ottimismo progressista nel liberalismo del secondo dopoguerra, evidenziata dai documenti dell’Internazionale Liberale e della Federazione europea dei liberali e democratici, mostra con chiarezza fino a che punto questa peculiare filosofia della storia sia strutturalmente necessaria al progetto liberale, e quanto perciò – mi si perdoni la formulazione, ma la tautologia è nelle cose – il successo storico di quel progetto sia dipendente dal suo successo storico. Se così è, e se al contempo lo scoppio della Grande Guerra e poi gli eventi degli anni Venti e Trenta hanno gettato sull’ottimismo progressista ottocentesco una pietra tombale definitiva, allora si spiega per quale motivo – come lamentava Roger Motz nel 1946 – dopo la Seconda guerra mondiale il liberalismo che si riafferma nel Vecchio Continente sia non soltanto embedded, ma pure without liberals. O, detto altrimenti, per quale ragione nella seconda metà del XX secolo nessuno dei partiti liberali europei riesca mai – se non in occasioni del tutto particolari e per ragioni congiunturali che poco o nulla hanno a che fare con la loro connotazione ideologica – a raccogliere alle elezioni più che un pugno di voti. La debolezza del liberalismo partitico europeo è stata spiegata prevalentemente sulla base di due fenomeni: l’affermarsi dei princìpi liberali per un verso, che avrebbe reso superflui i partiti specificamente connotati da quell’etichetta; e per un altro l’incapacità del liberalismo di trovare una collocazione lungo un continuum destra-sinistra fondato sulla politica di classe.
Come ho cercato di dimostrare altrove nessuna di queste due spiegazioni mi convince. O meglio: ritengo fondati entrambi i ragionamenti, ma credo pure che i due difetti del liberalismo partitico che essi evidenziano non siano strutturali e necessari, ma rappresentino essi stessi una conseguenza della precedente – in termini sia cronologici sia di causazione – opera di “falsificazione storica” che il trentennio 1914-1945 ha condotto sul progetto liberale, in particolare devastando quell’ottimismo progressista che ne costituiva una componente insostituibile. Sono questa fragilità e al contempo coscienza della fragilità a rendere i liberali vittime, e non protagonisti, dei processi di riallineamento politico dai quali sono caratterizzati i decenni successivi al 1945. E a lasciare loro due sole opzioni: o accettare il quadro politico che li costringe e penalizza, ritagliandosi all’interno di esso uno spazio residuale – quello di una terza forza centrista, ragionevole e preoccupata del bene comune. \ Oppure tentare disperatamente di rompere le righe e ridisegnarle in una forma – come quella fondata sulla dicotomia fra libertà e non-libertà – che restituisca loro una posizione egemonica. Sono due opzioni entrambe insoddisfacenti: la prima perché passa per l’accettazione di una posizione elettoralmente marginale; la seconda perché ha già in partenza scarsissime possibilità di riuscita, e nei fatti fra il 1945 e il 1989 non si concretizza mai. Generando quella frustrazione che nei circoli politici liberali del secondo dopoguerra non di rado troviamo commista con orgoglio e senso di superiorità: da un lato la consapevolezza di aver capito prima e meglio degli altri, di essere i veri trionfatori del XX secolo, di possedere l’avvenire – o, per dirla con Croce, l’eterno –; dall’altro la constatazione di non riuscire più a raccogliere il consenso altro che di sparute minoranze.


Mi dicono che il liberalismo è debole ovunque. La sua voce è la voce della ragione, ma gli uomini non vogliono ascoltarla. Invita a trarre insegnamento dall’esperienza, ma l’umanità non vuole imparare dall’esperienza.

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