Tutta Leni Riefenstahl è racchiusa in pochi folgoranti versi di Goethe. «E qua la mano./ Dovessi dire all'attimo:/ Ma rimani! Tu sei così bello!»/ Allora gettami in catene,/ allora accetterò la fine!/ Allora batta a morto la campana,/ allora, esaurito il tuo impegno,/ s'arresti l'orologio, cada giù la lancetta,/ per me finisca il tempo!». È il patto siglato fra Faust e Mefistofele, ma la regista di Olympia non lo sapeva, o non se ne ricordava. Così, si provò a fermare l'attimo, nella sua bellezza, nello splendore della forma, nell'armonia del gesto, nella potenza dell'azione. Finì all'inferno.
Riefenstahl, il documentario di Andres Veiel presentato ieri fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, aggiunge sotto questo aspetto poco, se non il continuo sottolineare che in fondo ciò che la interessò come regista fu appunto «il culto del corpo» e, come dice lo stesso Veiel, «le sue immagini sono una celebrazione della superiorità e della vittoria e, allo stesso tempo, trasudano disprezzo per il debole e l'imperfetto». Più che di una verità o una constatazione, si tratta di un'opinione e forse sarebbe meglio dire che la colpa comunque non era tutta di Leni Riefenstahl: è la bellezza a non essere democratica... Un corpo e un animo femminili, una volontà e un pensiero maschili. In questa dicotomia si compendiano il successo e la tragedia della Riefenstahl, nella vita pubblica come in quella privata. Nel lavoro, questo bisogno di imporsi, questa ansia di competizione, la seduzione della violenza e la plasticità della potenza concorrono a realizzare dei capolavori inquietanti nel loro alternarsi di luci e di ombre, nell'appagamento della forma e nel suo distorcersi prima della perfezione. I film romantici e sentimentali di cui sarà regista e protagonista, prima dei documentari che ne sanciranno la grandezza e ne prepareranno l'esecrazione, sono in pellicola quello che le tele di Caspar David Friedrich sono state nell'arte. La natura come elemento primordiale, al cui richiamo non si può resistere, la solitudine dell'essere umano, la fascinazione degli estremi e dei contrasti. Le foto dei Nuba e poi quelle subacquee aggiungono quella fascinazione per i colori che non fece in tempo a sperimentare con la macchina da presa, ma le sinfonie di luci africane sono un tutt'uno con le cattedrali di luce dei congressi nazionalsocialisti, con i rossi e gli azzurri degli sciatori del Tirolo su cui avrebbe voluto girare un film, con i neri e i viola di Emil Nolde di cui era appassionata o i gialli intensi di Van Gogh, altro soggetto cinematografico rimasto incompiuto. La bellezza scandita dall'armonia dei corpi, la politica intesa come estetica, trionfo di composizioni, masse che si muovono all'unisono, movimenti perfetti, ordine e misura: tutto questo insieme fu l'attimo fuggente che la Riefenstahl cercò di fermare con la cinepresa.
Il documentario di Veiel ne dà conto purtroppo solo a tratti, più interessato a mischiare interviste d'epoca, filmati, registrazioni, con cui dare
soprattutto conto delle ambiguità, delle piccole e grandi bugie, dei non detti e dei compromessi che ne accompagnarono una vita lunghissima, oltre il traguardo dei cento anni.Non era un angelo, Leni, ma neppure il diavolo.
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