Dino Cofrancesco
La mia ammirazione per Marcello Veneziani, uno dei più acuti saggisti dell’Italia contemporanea, uno scrittore della razza di Giuseppe Prezzolini, non m’impedisce di trovarmi talora in disaccordo col suo stile di pensiero. Non fa eccezione il suo articolo di ieri in queste pagine: Analisi zoppe e idee spuntate. Alla crisi non pensa nessuno. Davanti alla profonda crisi economica e finanziaria in atto, sostiene, destra e sinistra, liberali etc., sono incapaci di formulare teorie, di spiegarci quanto sta accadendo. Come si vede, un giudizio così forte fa apparire Oswald Spengler un ottimista.
Ma è giustificata questa cupa diagnosi? In realtà, come capita spesso ai «filosofi della crisi», Veneziani confonde i giudizi di fatto con i giudizi di valore. Basta mettere piede in una Libreria Feltrinelli per imbattersi in sterminati scaffali di libri che criticano il modello occidentale. Invece per trovare una qualche difesa del mercato e della democrazia rappresentativa, occorre frugare negli angoli riservati a editori come Rubbettino o LiberiLibri per trovare autori come Kenneth Minogue o il nostro Pierre Manent. Questi sono i fatti: che poi i Toni Negri, i Serge Latouche, i Pierre Bourdieu, gli Zygmunt Bauman piacciano o non piacciano è questione di gusti e di valori.
Il problema, però, è un altro. Riguarda una forma mentis che Veneziani, stranamente, condivide con gli illuministi. Mi riferisco alla pretesa che sia possibile che il pensiero sia in grado di restituire il senso profondo degli eventi storici, di mettere ordine nel gran disordine del «divenire cosmico». Tale pretesa intellettuale nell’epoca dei Lumi si fondava sulla ragione, in seguito sulla riscoperta delle radici e della tradizione: in ogni caso, si era convinti di poter dare un significato alla storia, fosse di progresso o di decadenza.
Lo spirito della scienza moderna, con la sua consapevolezza che sia possibile solo far luce su aspetti della realtà limitati e controllabili, non è mai entrato nei «grandi racconti» di «destra» e di «sinistra». In tal modo, la perdita di fiducia nella verità si traduce in uno sconsolato relativismo che si lascia sfuggire quanto gli empiristi classici sapevano fin troppo bene. Ovvero che il mondo umano è un prisma che presenta varie facce, ciascuna delle quali coglie aspetti significativi della nostra esistenza, ma la cui natura resta, oggi come ieri, indecifrabile.
Nei secoli passati c’era qualcosa che metteva ordine nel pensiero: le istituzioni politiche e il loro momento più alto, lo Stato nazionale. Le istituzioni erano gli argini artificiali entro i quali si muoveva la riflessione teorica: la loro capacità di «mettere in forma» un territorio dava al pensiero l’illusione del controllo del divenire sociale. Se lo Stato di Luigi XIV ha unificato la Francia nell’interesse dell’assolutismo, perché uno Stato diverso, ispirato dalla ragione, non potrebbe operare nell’interesse di tutti?
Oggi, il dato drammatico è che il pianeta è «fuori controllo», la politica non ha più presa sulla realtà. I gruppi economici, religiosi, culturali etc. hanno rotto le righe e i governi sono ridotti a notai che ne registrano le mutevoli e infinite richieste. Di qui la sensazione del caos irrimediabile e dell’incertezza in cui sono immerse tutte le cose.
«Non riesco a considerare eterni e intoccabili questo capitalismo, questa democrazia, questa Europa, questo Occidente e l’egemonia americana che giudico finita con il secolo scorso», scrive Veneziani. Ma il pensiero si è mai davvero «cimentato con la propria epoca»? Solo quando capitalismo e democrazia sono diventati paesaggi stabili della storia umana esso ne ha rilevato le implicazioni sociali, etiche, religiose e le dinamiche antropologiche. Del pari, solo quando nasceranno nuovi assetti di potere internazionale si porrà il problema di stabilire quali nuove forme di rappresentanza politica e quali nuovi modi di produzione saranno possibili.
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