Alessandro M. Caprettini
da Roma
«Abbiamo tre obiettivi» si sbilancia Romano Prodi. E chiarisce che i primi due, immediati, sono il cessate il fuoco e la creazione del corridoio umanitario per assistere i 400mila profughi («Un dramma di cui si parla pochissimo»). Mentre lultimo, più a medio termine, è la creazione di una forza di interposizione - di cui già si discusse a San Pietroburgo - in modo da dare sicurezza al futuro della zona.
È ottimista il presidente del Consiglio, o almeno tale vuole apparire. Ma in realtà il summit che si tiene oggi tra i ministri degli Esteri di 15 paesi (Italia, Usa, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Spagna, Turchia, Canada, Russia, Cipro, Arabia Saudita, Libano, Egitto e Giordania), tre organismi internazionali (Onu, Ue e Banca Mondiale) e la Santa Sede invitata come osservatore (il Papa ieri ha pregato perché «arrivino risultati concreti»), è un cerchio di difficilissima quadratura. Già ieri la Farnesina ha messo le mani avanti, chiarendo che «non si devono alimentare aspettative per un evento che non è un punto di arrivo, ma un passaggio di un processo». Ma sono altri i segnali preoccupanti che ieri sera sincrociavano nella capitale italiana, dove si sono avviati contatti bilaterali a 360 gradi. Gli inviati dei paesi arabi, ad esempio, fanno capire chiaramente che se Israele non rinuncerà con effetto immediato alluso delle armi, il Medio Oriente tutto potrebbe deflagrare. Lo ha detto a chiare lettere il re saudita Abdullah che «se larroganza israeliana non venisse meno non ci saranno altre opzioni se non la guerra». Ma anche il leader egiziano Mubarak ha avvertito che «se il summit dovesse andar male le ripercussioni rischiano di esser gravissime».
Il cessate il fuoco, così, resta la conditio sine qua non prima di avviare qualsiasi discorso. Ma da Gerusalemme, che non prende parte formalmente al vertice pur tenendo contatti strettissimi con chi è al tavolo delle trattative, i segnali non sono chiari. Peretz, ministro della Difesa, dice che lobiettivo dei suoi soldati, per ora, resta la creazione di una nuova fascia di sicurezza, ma non pone per ora limiti allazione militare. Gli europei, a cominciare dai francesi, si dicono disponibili a valutare uno schieramento di interposizione, ma reclamano lo stop ai combattimenti. Che nessuno a quanto pare, a cominciare dai siriani, può garantire in relazione agli hezbollah. I quali sono del resto invitati da Teheran a portare lattacco al cuore di Israele.
Situazione molto complessa, dunque. Anche perché tra laltro la delegazione libanese che giunge a Roma dovrà tener conto delle divisioni che esistono nel paese. Dove al premier Siniora che vuole «un accordo globale per liberare tutto il territorio libanese», di fatto si contrappongono il presidente filosiriano Lahoud, che esprime forte scetticismo sui possibili risultati del summit, e il presidente del Parlamento di Beirut Nabih Berri (considerato vicino agli Hezbollah) secondo cui il rischio autentico che si corre se si prenderà la strada del disarmo dei miliziani sciiti, è quello di una guerra civile nel suo paese.
Come se ne possa uscire in un appuntamento di sole 4 ore e mezzo, aperto - così recita il programma - da un intervento di Romano Prodi, è tutto da chiarire. La spola della Rice tra Israele, Libano e territori palestinesi non sembra aver aperto troppi spiragli. Latteggiamento russo - favorevole allinterposizione ma molto fermo sullappoggio alla Siria - è ancora tutto da valutare. Così come quel che proporranno Egitto, Giordania e Arabia Saudita è da verificare nelle cose. Perché è vero che i tre paesi, a maggioranza sunnita, sono preoccupatissimi delleventuale concatenamento sciita tra Siria, Irak e Iran, ma è anche vero che da tempo sono paladini dei diritti dei palestinesi che oggi, con Hamas al governo, sono in sintonia con gli hezbollah.
Un summit delicatissimo.
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