"Una ruota del destino inseguirà i personaggi"

Leo Muscato: "Consentirà anche quaranta cambi di scena. Ho spinto sull'acceleratore della guerra"

"Una ruota del destino inseguirà i personaggi"

Laurea in lettere alla Sapienza di Roma e studi di regia alla Paolo Grassi di Milano, Leo Muscato si divide fra teatro di prosa (firma chiave del Teatro Greco di Siracusa) e d'opera. Al suo primo 7 dicembre, ha collaudato la macchina scaligera mettendo in scena il Barbiere di Siviglia di Rossini e poi Li zite ngalera di Vinci. Giuseppe Verdi è tra i più amati compagni di viaggio, nel suo portfolio brillano Rigoletto all'Opera di Roma, Un ballo in maschera a Malmo, Roma e San Francisco, Nabucco a Torino, I masnadieri a Parma, Bilbao e Monte-Carlo, Ernani a Firenze, I due Foscari a Parma e presto Attila a Venezia. Si è portato alla Scala le fide collaboratrici Federica Parolini, per la scenografia, e Silvia Aymonino per i costumi.

Nominiamo l'opera o è meglio usare cautela? Si dice che porti male

«La nomino scandendo ogni sillaba: La forza del destino. È un titolo evocativo, poetico, assieme a La Traviata tra i più belli mai coniati. Non è facile scegliere il titolo, capita che non funzioni, ma questo è pienamente riuscito.

È arrivato subito alla chiave registica o è stata cosa complessa?

«Sin dal primo ascolto mi è stato chiaro che in scena doveva esserci un movimento rotatorio, una ruota in costante movimento che gira in senso antiorario mentre i personaggi camminano in senso orario contro un destino che li insegue. E così, pur muovendosi, risultano fermi».

Quali incisioni ha ascoltato?

«Tutte quelle in circolazione, prima su Spotify, poi ho comprato dischi e cd sia della versione che allestiamo sia di quella per San Pietroburgo del 1862».

Ta-ta-ta. Con i tre accordi delle prime battute della Sinfonia è già teatro. Cosa accende nella mente di un regista un attacco così?

«L'idea di circolarità che innerva la Forza».

La ruota gira e così lei riesce a cambiare le scene, risolto l'annoso problema di quest'opera. Corretto?

«Non li ho contati ma direi che sono quasi quaranta i cambi di scene, moltissimi nel quarto atto dove sono praticamente moltiplicati per quattro».

Più tranquillo, in tal senso, il primo atto

«Siamo nella casa del marchese di Calatrava, vero, però assieme agli interni, la scrivania del padre per esempio, vediamo elementi da esterni, alberi, giardini, persone raggelate per effetto del fermo immagine».

Usa video?

«No, no. L'idea è quella di evocare, di sollecitare l'immaginazione dello spettatore».

Va in sala prove con la partitura sotto braccio. Inusuale per un regista.

«Faccio le mie annotazioni direttamente sulla partitura musicale. Parto da lì».

Vien da gridare al miracolo.

«All'università avevo chiesto al mio docente, Pierluigi Petrobelli, di poter frequentare un corso di lettura della partitura, non era contemplato quindi lui incaricò un suo assistente di occuparsene. Le mie idee registiche scaturiscono dalla musica».

Da quanto lavora alla Forza?

«Dal giorno in cui mi è stata commissionata».

Correva l'anno?

«2021. Un lusso avere una commissione con così largo anticipo, puoi approfondire, scavare. Ho ben presente la telefonata dell'ingaggio perché prima mi venne proposto il titolo di Vinci. Poi mi dissero: "Adesso siediti perché c'è un'altra cosa. Vorremmo che ti occupassi del titolo inaugurale del 2024. Tieniti forte: è La Forza del destino". Che vuol dire creare dei bei grattacapi a un regista, è un melodramma difficile da allestire».

Lei ha sbrogliato la matassa con l'idea della ruota ma anche della guerra diffusa lungo i quattro atti.

«Al tema della guerra sono arrivato in un secondo momento. La guerra è presente nel libretto, solo che noi abbiamo spinto sull'acceleratore allargandola all'intera opera. È invece arrivata molto più in là l'intuizione di ambientare il conflitto in quattro epoche diverse creando un lungo racconto epico, ambientando il primo atto nel 1700, il secondo nel 1800, il terzo nel Novecento e il quarto nella contemporaneità».

Quattro secoli in un colpo, prova ardua per i cantanti.

«Anche per la scenografa e per la costumista, brave nel trovare le soluzioni per tradurre quest'idea. Per esempio, Parolini ha scovato una serie di foto della prima guerra mondiale che ci consentono di ambientare il finale del terzo atto durante la mattina di Natale, con il conflitto sospeso per la ricorrenza».

Non crede che Carlo sia il personaggio più assurdo della storia? Un'esistenza bruciata in nome della vendetta.

«Mi ha fatto pensare al film I Duellanti. Una follia. Nel quarto atto, lo vedremo ufficiale graduato che attraversa deserti, territori vari, posti di blocco per andare a scovare colui che deve uccidere. Troverà un Alvaro fattosi prete, un po' stile don Gnocchi che aiuta i soldati al fronte, tra cadaveri. Ma lui non si ferma. Lo sfida di nuovo».

Alvaro è mulatto, e per questo il marchese di Calatrava nega le nozze con la figlia. Esce il tema dell'esclusione?

«Non è un tema chiave. Emerge il fatto che Alvaro è il più grande matador di Spagna, conosciutissimo, ricco sfondato e pure di nobile stirpe. Nobiltà che però non viene riconosciuta dal marchese di Calatrava, esponente di una famiglia molto nota in Spagna, nobile ma ormai poverissima».

Questa edizione della Forza

chiude come sarebbe piaciuto a Manzoni.

«È così. Confesso che durante le prove spesso mi sono ritrovato a chiamare Fra Cristoforo il nostro Padre Guardiano. Sto rileggendo I Promessi Sposi, penso per la quinta volta».

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