Non ci si aspettava uno spettacolo notturno come quando, a un congresso di trent’anni fa, Peppe Nanni salì sul palco con una rosa in mano, proponendola come nuovo simbolo al posto della fiamma. Cronache di atti situazionisti per partiti che furono. Alla nuova Fiera di Roma, sbullonata da un’aria dimessa e sferzata da un vento micidiale, si celebra al procedere della primavera l’ultimo congresso di un partito postmoderno, dell’Alleanza nazionale nata 14 anni fa, della destra democratica modulata da Gianfranco Fini per sancire il ritorno degli «esuli in patria» nel gioco del governo democratico. Oggi è cronaca del tempo presente, di una tappa stabilita sperimentare il più grande partito europeo di centrodestra, il Popolo della libertà.
La coreografia studiata da Ignazio La Russa è volutamente sobria. All’ingresso un omino vende cadeaux di An, a 5 euro un pezzo di memoria. Il nodo tricolore è ovunque. Chi cerca episodi di nostalgia resta con il foglio bianco. Il messaggio «Nasce il partito degli italiani» è il payoff della rivendicazione maggioritarista di aver compreso per primi che, lo dirà nel pomeriggio Viespoli, la seconda Repubblica ci sarà davvero quando dalla riforma costituzionale semipresidenziale nascerà la «Repubblica degli italiani».
Si parte di mattina, in ritardo causa fila negli accrediti. Il palco, una superficie enorme occupata da poche sedie dell’ufficio di presidenza, ricorda chi dice l’enorme tolda di una nave, chi dice un ponte (si dirà, un ponte dove la classe dirigente della destra sigilla il lucchetto di antiche fedeltà e lo getta via nel fiume della storia e del partito nuovo). Arriva Gianfranco Fini, inseguito dai fotografi governati a fatica dal portavoce Alfano. Lo spartiacque tra delegati e giornalisti crolla rapidamente. A sinistra della scenografia parte, in un rigurgito composto di emozione, il video-ricordo di Giorgio Almirante, citato poi dalla quasi totalità degli interventi. Almirante, dice la voce narrante, «era fatto per seminare e non per raccogliere» (finisce il video. Si sente un urlo: «Grazie Giorgio!» e dall’altra parte della sala: «Grande!»). È il turno del giovanissimo Emanuele, classe 1995, emozionatissimo: «Ora tocca a noi». Prima però tocca a un coro di ancora più giovani, di bianco vestiti, che accompagnano l’ospite atteso Enrico Ruggeri nel suo Si può dare di più, unica, sobria concessione allo spettacolo di un congresso volutamente lontano dagli effetti speciali. Il cantautore milanese, cuore nero no ma nerazzurro sì, trova il tempo di una battuta: «L’importante è che l’Inter non si fonda con il Milan... ». Risate.
Si apre ufficialmente il congresso. Parte l’inno nazionale, sullo schermo le frecce tricolori volano sopra il Campidoglio e Servello, presidente dell’assemblea, s’impossessa del microfono. Vuole rassicurare, lui che la storia della destra del dopoguerra se l’è fatta tutta: «Saremo la stessa gente di sempre, quella che il 26 dicembre 1946 accorse all’appello di Almirante, Michelini e de Marsanich» che fondò il Msi. Poi, dopo il saluto di Alemanno, in quanto sindaco di Roma e non come dirigente (parlerà oggi), arriva La Russa. Il suo intervento è sulla falsariga della mozione congressuale. Pigia ogni tanto sul tasto della passione, il reggente di An, come quando ricorda le vittime di destra crollate sotto il fuoco dell’odio politico, da Ramelli a Zicchieri, ma soprattutto argomenta: sul bagaglio di cultura politica che An porta nel Pdl, e sulla scelta «per necessità e per utilità» di un partito «multi-identitario» che avrà due leader, Fini affianco a Berlusconi. Non è una fusione fredda, ma una fusione razionale tra due «gemelli diversi», An e Fi, che non sono mai venuti meno al patto di alleanza. Altro video sull’identità, ben conosciuto dai delegati, che stampa «in motion» le parole d’ordine dell’appartenenza.
La scaletta degli interventi pomeridiani è ballerina, ma consegna la testimonianza visiva di una classe dirigente che entra nel Pdl con diverse sensibilità, destinate probabilmente a fare e disfare intese trasversali oltre i rigidi confini dei partiti costituenti. Per il bignamino almirantiano recitato dal ligure Plinio, e Ascierto che comunica la certezza di essere di destra «da uno a dieci: nove!», giungono interventi più argomentati come quello di Fabio Granata che usa Pound, Goethe e la Bellezza per mettere in guardia sul progetto edilizio del governo. Sotto il palco c’è un pezzo della gran palestra giovanile che fu la Nuova destra, con Croppi, Raisi e Alessandro Campi. A Urso, che spiega perché il Ppe non è «la nuova Dc» ma il luogo d’incontro delle destre laiche e modernizzatrici, segue Mantovano che offre ottime statistiche sulla sicurezza e buone rassicurazioni alla componente cattolica del partito. Bocchino ricorda che Fini è un leader da trent’anni e, dopo La Russa, lancia un’educata sfida alla Lega sul terreno del consenso. Ronchi va giù con la passione: «An non chiude, non possiamo chiudere i nostri cuori, non ammainiamo le bandiere della nostra idealità». Arriva il presidente del Senato, Schifani: il patrimonio di An, assicura, sarà conservato e valorizzato nel Pdl.
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