Generazione Settanta, di Miguel Gotor (Einaudi, pagg. 429, euro 34), ha per sottotitolo Storia del decennio più lungo del secolo breve, definizione felice a patto di non abusarne troppo. Ci sono state proiezioni novecentesche ben oltre il fatidico 1989 in cui cadde il muro di Berlino, e quanto ai cosiddetti Anni di piombo la loro eccezionalità temporale risulta incomprensibile se non si tiene conto dell'unicum rappresentato in Europa dal '68 italiano, una contestazione studentesca che si incrocia con un «autunno caldo» sociale e economico, sindacale e operaio e come una febbrile diarrea si ripete un decennio dopo rovesciata di segno e di senso.
Uno dei pregi del libro di Gotor sta del resto nel considerare quell'«eccezionalità» e, più in generale, l'eccezionalità dell'Italia in quanto tale, all'interno di una cornice internazionale di fatto legata ai blocchi occidentali-orientali scaturiti e sanciti dagli accordi bellici di Yalta, una linea di demarcazione o, se si vuole, di sfere di influenza, la cui possibile messa in discussione era foriera di fibrillazioni non solo continentali.
Per uno di quei curiosi paradossi della storia, l'atlantismo di cui oggi ogni forza politica nazionale si fa fieramente garante, fu proprio il «nemico principale» di quell'Italia progressista e di sinistra che vedeva nella cooptazione al governo del Partito comunista italiano il punto finale di un percorso politico inauguratosi all'incirca quindici anni prima, quando cioè era stata varata la politica dei governi di centrosinistra. E sempre per uno di quei curiosi paradossi della storia, i più «atlantisti» si dimostreranno di fatto le Brigate rosse con il sequestro prima e poi l'assassinio di Aldo Moro, pietra tombale messa su quel tentativo, ovvero sul «compromesso storico».
Poiché Gotor è un convinto sostenitore dell'«italianità» delle Br, e non del loro essere «eterodirette», lettura a suo dire «superficiale e, in fondo, tranquillizzante in quanto autoassolutoria», questo significa, allargando il campo a tutto ciò che concerne «il Partito armato», interrogare «dolorosamente la politica, la cultura e la società civile del nostro Paese». Per dirla in breve, il mito della lotta partigiana, dell'alterità del Pci rispetto alle altre forze politiche, troppo a lungo etichettate soltanto come reazionarie, clerico-fasciste e/o fasciste tout court, dell'alternativa teorica quanto rivoluzionaria rispetto al capitalismo e alla società borghese, gli si rovesciò paradossalmente contro a opera di chi ci aveva creduto.
Va altresì ricordato che fino alla scomparsa dell'Urss il Pci fu, come dire, a libro-paga del Cremlino, il famoso «oro di Mosca», e che il cosiddetto fattore K che ne interdiva l'ingresso nel governo nazionale, non per questo gli impediva un governo politico locale: regioni, provincie, comuni, eccetera. Era insomma di lotta e di governo, di opposizione, ma con forti rendite di potere. Un unicum, anche qui.
Gotor è uno storico che proviene dal mondo della sinistra, per quello che oggi può valere un'indicazione del genere. È stato senatore del Pd, è attualmente assessore alla Cultura del Comune di Roma, il cui sindaco, Roberto Gualtieri, è a sua volta esponente di quel partito. Essere nato nel 1971, lo mette al riparo dai rischi della memorialistica di tipo autobiografico. Non crede, per esempio, alla formula della «strage di Stato», nata all'inizio degli anni Settanta all'interno della sinistra extraparlamentare e che ha avuto, osserva, «un'importante funzione militante e mobilitante». Non ci crede perché «se la strage è di Stato alla fine nessuno è stato». E perché «ha impedito di approfondire gli aspri contrasti sviluppatisi in seno alla magistratura, alla polizia inquirente e persino nei servizi segreti, contrasti che in tanti ancora hanno interesse a rimuovere». Tuttavia, alla domanda di come gli apparati di sicurezza dello Stato, nonostante la loro rete di infiltrati nell'estrema destra «non riuscirono a prevenire le stragi del periodo 1969-1974 e a individuarne i responsabili dopo», risponde che i depistaggi, lungi dall'essere una «deviazione dell'attività dei servizi segreti, costituirono il risultato di un preciso mandato istituzionale», il che francamente e un po' volgarmente se non è zuppa è pan bagnato... Allo stesso modo, nello spiegare «la serie interminabile e capillare di azioni sovversive e armate di opposta matrice ideologica» e per un verso i due colpi di Stato «minacciati o abortiti» di Junio Valerio Borghese, nel 1970, e di Edgardo Sogno, nel 1974, li ascrive genericamente quanto cronologicamente «a quel tempo furioso» della Resistenza i cui i futuri «strateghi della tensione» «avevano poco più di vent'anni, e dunque, alla fine degli anni Sessanta ne avevano una cinquantina ed erano al culmine della loro energia umana e influenza professionale». Ora, se non altro cronologicamente, Borghese è classe 1906, e quindi era sessantaquattrenne e il Sogno golpista era un arzillo sessantenne...
Se si dovesse seguire la logica del cui prodest? si noterebbe che dalle elezioni del maggio 1968 a quelle del 1976, si ebbe un costante arretramento delle forze cosiddette moderate e un costante avanzamento di quelle cosiddette progressiste. All'inizio la Dc ha il 39,9 per cento dei voti e il Pci il 26,9, i socialisti unificati il 14,5, il Pli il 5,8, l'Msi il 4,4. Nel '72 la Dc scende al 38,7, il Pci sale al 27,1, il Psi è da solo al 9,6, il Msi va all'8,7 a danno del Pli. Nel '76 la Dc resta pressoché ferma, al 38,9, il Pci sale al 33,8, il Psi al 10,2, l'Msi scende al 6,1. Nelle amministrative del giugno 1975, inoltre, la Dc retrocede al 35,3 per cento, il Pci arriva al 33,4, il Psi al 12, l'Msi al 6,4. Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Umbria, Marche e Lazio vedranno il Pci avere la maggioranza relativa... L'impressione è insomma che gli ispiratori occulti della strategia della tensione, miranti o a un golpe militare in salsa greca o a un mantenimento dello status quo centrista non avessero le idee molto chiare su quale fosse la realtà del Paese. Uno degli equivoci di fondo sta probabilmente nel fatto che, praticamente esclusa dal perimetro di governo all'inizio degli anni Sessanta, la destra italiana si era rarefatta rendendo pressoché impossibile un'alternanza a suo favore. L'effimero successo missino del '72 era avvenuto dragando nel proprio campo, sostituendosi in pratica al Partito liberale che ancora nel '63 era al 7 per cento e nel '68, lo abbiamo visto, al 5,8, e comunque assolutamente ostile a ogni tipo di alleanza con il partito di Almirante. Ciò significava che era sempre e comunque la sola Dc a manifestarsi come un Giano bifronte, conservatore o progressista a seconda delle esigenze, e tuttavia ormai troppo sbilanciato su questa seconda faccia perché la prima potesse avere possibilità di successo. A ciò si aggiunge che gli altri giocatori «progressisti» della partita, socialisti e repubblicani, miravano a un più significativo spostamento a sinistra dell'asse politico del Paese. Non a caso sarà il leader repubblicano Ugo La Malfa a parlare di «ineluttabilità del compromesso storico», attirandosi l'ironia sferzante di Indro Montanelli: «C'è un pazzo che ha preso il posto dell'onorevole La Malfa»...
A tutto ciò si aggiunge un brodo di coltura intellettuale e sociale che Gotor illustra molto bene, ovvero «l'area di contiguità con la lotta armata», «il clima di complicità generazionale che indusse molti a far finta di nulla, a essere reticenti o addirittura solidali con chi la predicava». Da qui «omertose solidarietà e rapide sverniciature della memoria» che la dicono lunga anche sull'atmosfera umana e culturale di quel decennio.
Un altro dei pregi del libro di Gotor ricordati all'inizio, sta proprio nel cercare di dipanare il groviglio di interessi internazionali di cui l'Italia si trovò allora al centro: la Cia e i servizi segreti israeliani, il cosiddetto «lodo d'intelligence con l'Olp» per restare fuori dal terrorismo e dallo scontro in atto arabo-israeliano e le ripercussioni che esso provocò, la nostra politica mediterranea nei confronti della Libia e i contrasti con quella francese, le attività spionistiche dell'Urss e dei principali Paesi del blocco orientale, contrari per esempio a una presa del potere per via democratico-parlamentare del Pci berlingueriano strumentalmente revisionista e però a disagio nel suo dover rinnegare la propria matrice ideologica. Come scrive Gotor, ancora nel 1978, nel suo comizio di chiusura alla Festa dell'Unità, l'allora segretario comunista «tenne un discorso in cui affermò che i comunisti non rinnegavano il pensiero di Lenin e di Marx e neppure rinunciavano all'obiettivo di superare il capitalismo», il che mal si conciliava «con lo spirito di un governo di grande coalizione come quello della solidarietà nazionale».
Moro era stato ucciso nel maggio di quello stesso anno e Berlinguer si era
improvvisamente reso conto di essere ormai anche lui su un binario morto, alla guida di un treno che aveva perso, come il suo referente oltre cortina, la sua «spinta propulsiva». Ancora un decennio e sarebbe venuto giù tutto.
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