Lo scacco alla pace di Monaco 1938. La conferenza che non fermò Hitler

La minaccia verso la Cecoslovacchia era un campanello d'allarme. Britannici e francesi tentennarono, l'Italia fascista giocò di rimessa

Lo scacco alla pace di Monaco 1938. La conferenza che non fermò Hitler

Vi era molta attesa, quell'anno, il 1938, per il discorso che avrebbe pronunziato Hitler a Norimberga. Tutta l'Europa viveva momenti di ansia. Ci si aspettava che il dittatore svelasse i suoi piani. L'attesa non fu delusa. Il Führer, rivolto ai fedeli osannanti, affrontò la questione cecoslovacca. Ricordò che tra le nazionalità oppresse dallo Stato ceco vi erano tre milioni di tedeschi, quanti gli abitanti di un Paese grande come la Danimarca. Aggiunse: «Anche questi tedeschi sono creature di Dio. L'Onnipotente non li ha creati perché una convenzione politica, quella di Versailles, li abbandonasse a una potenza straniera che essi odiano». E concluse dicendo che la Germania, se essi lo avessero chiesto, sarebbe accorsa in loro aiuto.

Il discorso di Hitler fu accolto, tuttavia, come manifestazione della volontà di allentare la tensione europea. Mussolini, che l'aveva seguito alla radio, esclamò: «Mi aspettavo un discorso più minaccioso. Nulla è perduto». Il quotidiano conservatore inglese The Times approvò l'idea dell'autodeterminazione per i tedeschi della Cecoslovacchia, mentre alcuni giornali francesi, ignorando i passi più minacciosi del discorso, ne sottolinearono i più concilianti. Le cose stavano però diversamente. Quando Hitler parlò dal palco di Norimberga la situazione era già sul punto di rottura. La Germania non si accontentava più dell'autonomia per la regione dei Sudeti, puntava alla sua annessione anche a costo di un intervento militare. La pace, insomma, era appesa a un filo. Sarebbe stato possibile salvarla?

Al tentativo di evitare lo scoppio della guerra con la Conferenza di Monaco dell'ultimo scorcio del settembre di quel 1938, è dedicato un bellissimo libro dello storico e diplomatico Maurizio Serra dal titolo Scacco alla pace. Monaco 1938 (Neri Pozza, pagg. 500): un libro da gustare per l'eleganza e la piacevolezza della scrittura e da meditare con l'occhio rivolto all'attuale situazione politica internazionale. Accademico di Francia e ambasciatore, Serra è uno storico che unisce al rigore della ricerca archivistica la sensibilità di un narratore di razza. Ed è per questo che, il volume lavoro di storia diplomatica importante sul piano dell'interpretazione e dell'arricchimento documentario è godibilissimo per la capacità, quasi impressionistica dell'autore, di introdurre con rapide e suggestive notazioni alla conoscenza dei protagonisti della vicenda. Incontriamo così, per esempio, Neville Chamberlain, «l'inglese fuligginoso» dal «temperamento chiuso, procedurale, afflitto dall'emicrania», un vecchio gentiluomo riluttante a viaggiare all'estero e diffidente nei confronti dell'Europa continentale. E, poi, il francese Édouard Daladier, «il toro della Gallia», dall'aspetto poco attraente di «contadino ubriaco» e a disagio con i diplomatici del suo Paese che provenivano tutti dalle classi sociali più elevate. E, ancora, lui, il Duce, Benito Mussolini, che, in mezzo a persone «di un pallore malaticcio», era l'unico a «sfoggiare una sana abbronzatura mediterranea» e si era già «calato nel ruolo di novello Cesare» con indosso l'uniforme di primo caporale della Milizia che mal si addiceva al suo «fisico tarchiato» e «appesantito nel corso degli anni, malgrado una dieta rigorosa priva di amidi, carne e alcol». E, infine, il «caporale di Boemia», Adolf Hitler, l'unico che voleva davvero la guerra e che, anni prima, aveva reso noti i suoi propositi nel Mein Kampf, colpevolmente ignorato dalle cancellerie.

Furono questi i protagonisti e comprimari di quell'incontro di Monaco che, come scrive Serra, «rappresentò l'ultimo tentativo di raggiungere un'intesa diplomatica tra le potenze europee» per evitare il conflitto mondiale. Fu un tentativo cui si giunse al termine di un febbrile attivismo diplomatico. Dopo il discorso di Hitler, il premier inglese volle incontrare il Führer. Lo vide due volte: prima, il 15 settembre, nel nido d'aquila a Berchtesgaden e, poi, una settimana più tardi a Bad Godesberg e gli sottopose un piano anglo-francese. Hitler lo rifiutò, consegnò un suo memorandum di rivendicazioni e, tre giorni dopo, il 27 settembre, gli fece pervenire una nota che preannunciava l'occupazione militare del territorio dei Sudeti entro il primo ottobre. Ogni speranza di pace sembrava sfumata. Lo spettro della guerra era alle porte. Quello stesso giorno Chamberlain si rivolse alla nazione e, pur dichiarando irragionevoli le richieste di Hitler, disse che avrebbe tentato ancora una volta la strada della diplomazia.

Si giunse così alla conferenza di Monaco che riunì i capi di governo inglese, francese, italiano e tedesco. Non fu invitato nessun rappresentante della Cecoslovacchia del cui destino si discuteva e il cui solo delitto era quello di esistere. Si trattava di un esempio paradigmatico di quella politica di appeasement che Serra dimostra come al contrario di quanto da molti affermato fosse, allora, sostenuta «con poche sfumature» dalla «maggior parte della stampa, da quella popolare a quella di qualità». Alle 11 del 28 ottobre l'ambasciatore italiano a Berlino, Bernardo Attolico, si precipitò alla Cancelleria del Reich con un messaggio urgente di Mussolini che pregava Hitler di inviare di 24 ore la mobilitazione e di indire subito la conferenza quadripartita.

Il Duce lasciò Roma alle 18 su un treno speciale, accompagnato da Galeazzo Ciano e da altri ministri. Era di ottimo umore e aveva ancora nelle orecchie l'eco degli applausi, questa volta sinceri, della folla radunatasi per salutarlo. È stato detto che egli fosse partito in treno per evitare di attraversare le Alpi in aereo con il tempo incerto. Serra sostiene invece che il viaggio notturno da Roma a Monaco fu voluto da Mussolini per «studiare a fondo l'intera questione e mettere a punto il suo ruolo». Si tratta di una conclusione più che probabile perché durante l'incontro, iniziato alle 12,45 del 29 settembre e concluso poco dopo la mezzanotte, il Duce, come dimostra Serra, non agì affatto, contrariamente all'opinione diffusa, come «portaordini» o controfigura di Hitler, ma sostenne un progetto che ne incorporava uno tedesco diverso peraltro dalle posizioni estremiste del ministro degli Esteri von Ribbentrop. Anziché reggere il sacco ai tedeschi, insomma, Mussolini cercò di contenerne le pretese. L'atteggiamento dell'Italia, a parole filo-tedesco, fu, infatti, cauto, preoccupato sia di ottenere da parte anglo-francese legittimazione della propria attività mediatrice sia, anche, di garantire per l'Italia una posizione di equidistanza tra anglo-francesi e tedeschi.

L'accordo venne firmato il 30 settembre e segnò il destino dei Sudeti ma non ancora, come avrebbe voluto von Ribbentrop, quello dell'intera Cecoslovacchia. L'Europa tirò un sospiro di sollievo. Chamberlain disse che dalla Germania era venuta «una pace con onore». Daladier fu elogiato persino dal Léon Blum, mentre Mussolini si crogiolò nel ruolo di salvatore della pace nel mondo. In realtà, come scrive Serra, «Monaco non garantì la pace ma neppure l'onore ai firmatari dell'accordo.

Fu un umiliante fallimento, non solo dal punto di vista morale, ma soprattutto da quello politico, che nelle relazioni internazionali è di gran lunga più importante». La guerra, com'è noto, sarebbe scoppiata un anno dopo.

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