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Se il bonapartismo rischia di fare rima con populismo

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L'esuberante Madame de Staël, sua acerrima nemica, ha lasciato, nel postumo Dix Années d'exil, un ritratto impietoso e feroce di Napoleone Bonaparte, che, per la verità, lei all'indomani della Campagna d'Italia aveva cercato di sedurre o, quanto meno, di accogliere nel suo salotto letterario e politico. Ne sottolineò «un imperturbabile egoismo cui né la pietà né il fascino né la religione né la morale» potevano «per un solo istante far mutare direzione». E aggiunse con una battuta al vetriolo: «È un abile giocatore di scacchi, col genere umano sua parte avversa cui si propone di dare scacco matto». Anche il giudizio complessivo di Madane de Staël sul rapporto tra Rivoluzione e Napoleone un tema che avrebbe affascinato e fatto accapigliare gli storici da allora in poi era liquidatorio: «Di lui si può dire che incarni la Rivoluzione fatta uomo, ma la Rivoluzione violenta e corrotta a un tempo e non certo quella che le parti più nobili della società avevano desiderato e concepito».

Che la figura e la personalità di Napoleone lasciassero interdetti, divisi fra ammirazione e repulsione, i contemporanei, soprattutto di nobile lignaggio, è comprensibile. Emblematico è il caso di Metternich. Orgoglioso e raffinato rampollo di una aristocratica famiglia renana, questi, il principe Clemens von Metternich, ne ebbe un'impressione disastrosa quando nel 1806 lo incontrò a Saint-Cloud per presentargli le credenziali di ambasciatore. Si trovò davanti, lui nella sua elegante divisa diplomatica, un Napoleone sciatto, con indosso l'uniforme delle guardie di fanteria e il cappello in testa, che lo attendeva in piedi, al centro della sala circondato dal ministro degli Esteri e da altre persone. Questa mancanza di formalità in una udienza ufficiale colpì l'austriaco, così attento all'etichetta di corte e al cerimoniale diplomatico, e lo spinse a considerare l'imperatore dei francesi solo un goffo parvenu.

Eppure, in seguito, proprio Metternich avrebbe riconosciuto nelle sue memorie che Napoleone godeva in Francia di quel tipo di popolarità che un governante acquista quando dimostra di «saper tenere le redini del potere con mano abile e ferma» e di possedere quello «spirito realistico» capace di fargli individuare e cogliere i sentimenti, i bisogni, le richieste del Paese: una popolarità, verrebbe voglia di dire con un termine oggi abusato, di tipo populistico.

Napoleone era una personalità complessa. Assai più colto di quanto non si creda, era stato, fin da giovane, attento lettore di Voltaire, Montesquieu, Rousseau e si era cimentato persino come autore di romanzi di ambientazione esotica e protoromantica. Aveva doti preziose per la carriera militare e per la sua attività di politico e di statista: eccezionale capacità di lavoro, velocità fulminea nell'assumere decisioni, forza di carattere, fascino trascinatore. Pragmatico, ambizioso, convinto della propria superiorità e amante del potere aveva il dono istintivo di saper cogliere gli umori della popolazione e secondarli.

Uomo d'azione, più che di pensiero, Napoleone aveva, in campo politico, poche idee ma ben chiare: detestava le rivoluzioni perché negatrici dell'ordine e portatrici di lutti e di sangue; diffidava dei parlamenti che perdevano il loro tempo in vane discussioni; non credeva alla sovranità popolare se non attraverso la mediazione del plebiscito destinato a fornire legittimazione al potere di fatto. Aveva imbastito ben prima di quanto avrebbero poi fatto i regimi autoritari e molti movimenti populistici un rapporto diretto e quasi patriarcale con i francesi fondato sull'idea, come avrebbe scritto, che «un sovrano costruisce una grande strada per il suo popolo, protegge quanti la percorrono in maniera retta, punisce quanti deviano a dritta o a manca».

L'impero che quest'uomo edificò dopo essersi impadronito del potere non corrispondeva a nessuno dei modelli di architettura istituzionale elaborati dai pensatori politici. Era, certamente, una dittatura militare illuminata, che proveniva da un atto rivoluzionario ma superava la Rivoluzione. Non a caso egli si forzò di far accettare la propria creatura istituzionale, legittimata solo dalle baionette e dal plebiscito, dall'Europa monarchica e tradizionalista sia unendosi in matrimonio con la figlia dell'imperatore austriaco sia creando una nuova aristocrazia di fedelissimi, forgiata sui campi di battaglia, ma destinata, nelle sue intenzioni, a fondersi o a convivere con la nobiltà tradizionale. Proprio alla nobiltà, nuova e antica, Napoleone, com'ebbe a dire, attribuiva un ruolo di stabilizzatore sociale e politico: «La democrazia concede la sovranità, ma soltanto l'aristocrazia è in grado di conservarla».

Venuto fuori dalla Rivoluzione e al servizio della Rivoluzione, Napoleone, una volta giunto al potere, ristabilì taluni istituti propri dell'Antico Regime in un originale amalgama di vecchio e nuovo. Fu, insomma, nel bene o nel male, uno dei fondatori e garanti dello Stato moderno, un eccezionale modernizzatore della società e delle sue istituzioni. Lo fu, in primo luogo, perché garantì la sopravvivenza in Francia, e la diffusione in Europa, di significative conquiste sociali e politiche come, per esempio, l'abolizione del regime feudale o la proclamazione dell'uguaglianza di fronte alla legge di tutti i cittadini. Lo fu, anche, in secondo luogo, per la vastità e importanza dell'attività legislativa da lui voluta con la promulgazione di codici da quello civile a quello commerciale, da quello penale a quelli di procedura civile e penale che, nel complesso, misero la parola fine al principio della molteplicità delle fonti del diritto, facile veicolo di abusi e ingiustizie, e gettarono le basi per un sistema organico in grado di garantire proprietà, libertà individuali, eguaglianza giuridica. Certo, ancora a distanza di duecentocinquanta anni dalla nascita, il giudizio storico-politico su Napoleone non è (e, d'altro canto, non può essere) unanime. La sua figura e la sua personalità si prestavano facilmente alla esaltazione ovvero alla denigrazione. Il feroce ritratto di Madame de Staël che lo descrisse come un despota privo di religione e di moralità, per esempio, ha condizionato per molto tempo la storiografia di tradizione liberale.

Al di là, comunque, dei giudizi di valore e delle simpatie o antipatie, quel che conta è il peso della eredità napoleonica sulla società e sulla politica a lui successive: una eredità innegabile. Il fatto stesso che dal cognome di Napoleone sia derivato un termine, «bonapartismo», entrato a far parte del lessico politologico è la più evidente dimostrazione dell'importanza storica dell'imperatore oltre i confini del suo Paese e dei tempi in cui visse. Utilizzato, all'inizio, per indicarne la presunta ideologia politica o, dopo la caduta dell'impero, l'insieme dei nostalgici, il termine «bonapartismo» finì, col passare del tempo e l'affinarsi degli studi, per individuare, come ha dimostrato lo storico René Rémond, un filone preciso all'interno delle «famiglie politiche» della destra francese, quello «centrista» collocato fra l'estrema destra dei «legittimisti» e il centro-destra degli «orleanisti». In seguito, il termine, diventato sempre più «concetto», ha identificato, di volta in volta, movimenti politici legati al plebiscitarismo e a nomi come quelli del generale Boulanger o dello scrittore nazionalista Maurice Barrès, del generale Charles De Gaulle o di Pierre Poujade fino a giungere al lepennismo o, più in generale, oltre i confini nazionali francesi, al «populismo» contemporaneo.

Che poi qualcuno possa sostenere che, attraverso il «bonapartismo», Napoleone debba essere visto come il padre del «populismo» è una di quelle iperboli alle quali ci ha abituato una storiografia troppo prona alle ideologie e alle semplificazioni politologiche.

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