Se la Gregoraci avesse letto l’«Ulisse» di Joyce

Ruggero Guarini

Se su quest'ultimo scandalo a base di sesso e potere, nonostante l'indecenza di alcuni suoi aspetti giudiziari, fosse lecita qualche celia, si potrebbe anche osservare che la bella Elisabetta Gregoraci, durante il suo faccia a faccia col dottor Woodcock, se avesse letto «L'Ulisse» di Joyce, se la sarebbe cavata un po' meglio. In tal caso, infatti, mentre quell'intraprendente pm la interrogava nel proprio ufficio, è probabile che lei, a un certo punto, avrebbe trovato il coraggio di inserire nel dialogo una frase simile a quella con cui Molly Bloom, in un passo del suo celebre monologo, rievocando la sua adolescenza, pone fine alle insistenti domande che Padre Corrigan, il suo confessore, le faceva sui suoi amoretti.
Cito il breve passo aggiungendovi soltanto quella punteggiatura che Joyce credé opportuno omettere: «E poi non posso soffrire la confessione. Quando andavo da Padre Corrigan: “Mi ha toccata, padre”. “E che male c'è? Dove?”. E io come una stupida dicevo: “Sulla riva del canale”. “Ma dove sulla vostra persona, figlia mia!”. “Sulla gamba dietro in alto”. “Era mica piuttosto in alto? Era mica dove ci si siede?”. “Sì”. Oh signore, non poteva dire subito “il sedere” e buona notte? E che cosa c'entrava tutto questo? “E avete anche...?” (non mi ricordo la parola). “No, padre”. E io pensavo sempre al vero Padre. Che bisogno aveva lui di sapere quando avevo già confessato tutto a Dio?».
Sublime sarcasmo della grande Molly! Ma in casi come quello della Gregoraci, e di tanti malcapitati come lei, celiare non è permesso. Quando si legge quello che si è letto in quel verbale; quando si apprende, cioè, che in questo ameno paese può accadere che un procuratore di giustizia convochi nel suo ufficio una ragazza che ha l'unica colpa di voler fare un po' di strada in televisione, e fàttala sedere davanti a lui le chieda se conosce un certo personaggio più o meno influente, e se si sia mai recata nel suo ufficio, e se ci è andata sola o accompagnata, e se poi ci ha fatto l'amore, e che specie di amore è stato, e se sono state davvero soltanto, come a un certo punto sostiene lei, coccole ed effusioni, e così via inquisendo; quando insomma si sbatte la faccia su un così abbagliante documento dello stile morale di certe nostre procure - allora passa qualsiasi voglia di scherzare.
La sola voglia che resta è infatti quella di chiedersi se l'aspetto più penoso e demoralizzante di tutta questa faccenda, e di tante altre faccende simili, non sia affatto il disprezzo assoluto che certi magistrati dimostrano di avere per la natura assolutamente privata, e per ciò stesso priva di ogni rilevanza penale, di molti dei fatti sui quali si credono in diritto di inquisire. Più penosa e demoralizzante potrebbe infatti sembrare l'estrema acquiescenza e remissività di tanti inquisiti, la loro assoluta ignoranza del loro diritto a non rispondere a certe domande, la loro sconcertante incapacità di reagire all'inammissibile pretesa di interrogarli su aspetti e particolari della loro vita che riguardano soltanto loro con una risposta adeguata a una così indecente, volgare soverchieria. Una risposta che dovrebbe suonare suppergiù così: «No! Questo proprio no! Questi sono fatti miei e soltanto miei! E lei, gentile procuratore, non ha il diritto di ficcarci il naso. La prego perciò di non insistere».


Ma gli avvocati di queste povere vittime ignare lo sanno o non lo sanno che il loro primo dovere è quello di spiegare ai loro clienti che in certi casi fra i loro diritti c'è anche quello di metterli a posto, questi nuovi inquisitori? guarini.r@virgilio.it

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