«Sono un finanziere in una città governata da finanzieri. Mio padre era un finanziere in una città governata da industriali. Suo padre era un finanziere in una città governata da commercianti. Suo padre era un finanziere in una città governata da una società molto unita, indolente e moralista, come la maggior parte delle aristocrazie di provincia. Queste quattro città sono la stessa, New York».
Quando scrive «sono un finanziere», Andrew Bevel esercita l'arte dell'understatement. Bevel è il re della città. Cioè della finanza mondiale. Quando scrive queste righe, un abbozzo di autobiografia, è il 1938: ha 62 anni, ha perso l'adorata moglie Mildred e gode ancora dei guadagni strabilianti ottenuti grazie all'ultima crisi del '29, quella che tutti chiamano la Grande depressione ma che, per la Bevel Investments, è stata una Grande benedizione. Bevel è quello che in Italia si definirebbe il «burattinaio» di Wall Street: non solo prevede ogni impennata e sbavatura del mercato, cavalcandola di conseguenza, no, Andrew Bevel plasma il mercato, lo maneggia come fosse una sua creatura, lo controlla e lo indirizza; e il mercato, docile e felice, lo soddisfa più che pienamente, ogni volta, a dispetto delle invidie e dei crolli (altrui). Il problema di Bevel è che è, diciamo, inafferrabile. Anche quasi a sé stesso. La mia vita, il suo tentativo di autobiografia, è solo una parte della verità, e della storia. In effetti, questa storia gode di varie prospettive da cui possa essere raccontata, e Hernan Diaz (che col precedente romanzo Il falco è stato finalista al Pulitzer e al Pen/Faulkner Award) ce ne propone quattro in Trust (Feltrinelli, pagg. 382, euro 19), un romanzo che fin dal titolo fa capire dove vada a parare: nel cuore del cuore del capitale, giocando sull'ambiguità fra trust inteso come fondo fiduciario, monopolio e... fiducia. Ed è proprio quest'ultimo significato della parola a essere messo decisamente in discussione, quando si parla di fondi e monopoli; specialmente se i fondi e i monopoli afferiscono a quell'Andrew Bevel la cui vita è circondata da un alone di mistero, da lui volutamente alimentato, soprattutto per quanto riguarda la morte prematura della moglie.
Il lettore di Trust si trova di fronte quattro versioni della vicenda. La prima è narrata da un certo Harold Venner in Fortune, un romanzo scandalistico che racconta i retroscena della vita di Bevel e Mildred sotto le mentite (ma riconoscibilissime per il pubblico newyorchese) spoglie di Benjamin Rask e Helen. Va da sé che il libro, in equilibrio tra verità scoperchiate e falsità presunte che nessuno può però verificare data l'elusività di Bevel, diventi un bestseller. La seconda versione è la autobiografia che Bevel stesso tenta di scrivere, La mia vita. Di fronte al fallimento, Bevel assume una giovane stenografa, Ida Partenza, figlia di un anarchico immigrato dal Molise che fa il tipografo a Brooklyn e le inculca fin dall'infanzia teorie anticapitaliste (le tornano utilissime, al momento di farsi assumere dal massimo centro del capitalismo: sa spiegare perfettamente quanto conti il denaro...): lui le detta le proprie vicende, così come vuole che siano raccontate, e lei deve metterle per iscritto, aggiungendo un tocco «femminile». Il libro si intitola Memorie nel ricordo. Il fatto è che, quando il palazzo dell'Upper East Side con vista sul Central Park di Bevel diventa un museo, Ida Partenza, ormai settantenne, viene a sapere che esistono dei documenti segreti, rimasti negli archivi della casa per decenni, e decide di consultarli: vuole capire se lì dentro si nasconda la versione definitiva della storia, la verità su Bevel e sulla malattia e la fine di Mildred. Ciò che scopre è nel capitolo finale del romanzo, intitolato Fondazione, e scritto dalla stessa Mildred. È quello che sembra, finalmente: la soluzione dell'intrico biografico/umano/finanziario.
Ida Partenza sa di aver «creato un Bevel fittizio», quello impostole da lui stesso; Venner sa di aver creato un Bevel fittizio, nei panni di Rask; Bevel, a sua volta, pur essendo pieno di sé è troppo intelligente per non sapere di avere creato una versione fittizia di sé stesso, da fornire al pubblico per ragioni, all'inizio, non del tutto chiare; resta da capire se anche Mildred abbia contribuito a creare questa finzione, o ne sia stata soltanto la vittima... Di sicuro, fin dall'inizio si sa che Mildred (così come l'alter ego Helen) è intelligentissima, un fenomeno in matematica e nelle tecniche mnemoniche, che è elegante ma distante dalla socialità e dai rapporti umani comuni, esattamente come il marito (anzi, è proprio questo distacco ad avvicinarli, fin dal primo incontro) e ha una passione per le arti, in particolare la musica, nei confronti delle quali si ritaglia un ruolo di neo-mecenate molto generosa. Ma chi sia davvero Mildred è parte del lato oscuro del leggendario marito e, più in generale, del mondo di cui fa parte. Quindi, altro non si può dire.
Si può dire, invece, e Diaz lo fa benissimo, del meccanismo capitalistico e della fascinazione che esercita: proprio in un momento in cui la realtà da esso creata sembra andare in crisi, le grandi dinastie scomparse o messe in discussione, la sua solidità messa in dubbio da più lati (bolle, leaks, proteste di massa...), il grande capitalista, il Bevel, gli Effinger raccontati da Gabriele Tergit nel romanzo omonimo (Einaudi), il Del Vecchio celebrato appena scomparso, così come il Bobby Axelrod televisivo della serie Billions (scritta da un genio come Andrew Ross Sorkin), o i Lehman della Trilogia di Stefano Massini che sbancano a teatro, sono figure che conquistano il pubblico e lo attraggono irresistibilmente, anche nei casi in cui l'aspetto «impresentabile» sia molto ben presentato. Anche Trust diventerà una serie, prodotta e interpretata da Kate Winslet. Il meccanismo di tanta fascinazione lo spiega Bevel stesso nel capitolo della sua autobiografia, il più interessante da questo punto di vista: «Tutti aspiriamo a maggiore ricchezza (...). Poiché nulla in natura è stabile, non ci si può limitare a conservare quel che si ha». E questa è una legge darwiniana, sottesa a successi e cadute, come quella del '29: infatti la crisi, dice Bevel, non è che «la perversione di tutto ciò che era stato grandioso negli anni precedenti», ed è avvenuta a causa di «avidi dilettanti e burocrati pasticcioni». Il mercato, di per sé, «ha sempre ragione». E la prosperità del singolo è quella del Paese intero: il benessere della famiglia Bevel procede di pari passo con il «nuovo Rinascimento» americano.
Ma c'è di più. Diaz entra nei pensieri di Bevel e ci rivela: «Ogni nostro atto è regolato dalle leggi dell'economia. Quando ci svegliamo al mattino barattiamo il riposo con il profitto. (...) E durante la giornata ci impegnano innumerevoli transazioni.
Ogni volta che troviamo la maniera di minimizzare le fatiche e aumentare il guadagno stiamo stipulando un accordo commerciale, anche se solo con noi stessi. Questi negoziati sono talmente radicati nella nostra routine che li notiamo appena. Ma la verità è che la nostra esistenza ruota intorno al profitto». Che poi ci sia da fidarsi...
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