Il professor Charles Taylor e i suoi scritti compiono il miracolo che ogni rovesciamento della prospettiva comune realizza e nel suo caso la rivoluzione riguarda la secolarizzazione. È su questo che il libro più noto di Taylor e anche il suo ultimo, pubblicato nel 2007 e tradotto per l'Italia da Feltrinelli, L'Età Secolare si concentra e non a caso è diventato uno dei saggi che più ha segnato il dibattito pubblico negli ultimi decenni. La maggior parte degli scritti di questo filosofo canadese (Montreal, classe 1931) - allievo di Isaiah Berlin a Oxford e professore di Filosofia e Diritto alla Northwestern University of Chicago e all'Università McGill di Montreal, di cui oggi è emerito - sono tradotti in 20 lingue e spaziano su problemi che vanno dall'intelligenza artificiale al linguaggio e dall'etica e al multiculturalismo (ricordiamo Radici dell'io, Feltrinelli, 1993, Il disagio della modernità, Laterza, 1994, La modernità della religione, Meltemi, 2004). Nel 2007 gli è stato conferito il premio Templeton, lo stesso consegnato tra gli altri a Madre Teresa di Calcutta e Aleksandr Solenicyn, e nel 2019 il premio Ratzinger, proprio per «l'ampiezza di sguardo» sulla secolarizzazione. Nelle quasi 900 pagine in cui descrive la sua tesi sull'età secolare, ci consegna un monito illuminante: proprio perché assimilato come certo, l'indebolimento del senso di appartenenza religiosa ha la strada spianata. Secondo Taylor, tuttavia, la tensione spirituale è immutata, e se il contesto culturale non la incoraggia più, dobbiamo lavorare sul contesto culturale, non piangere la scomparsa di qualcosa che è in noi da sempre: proprio su questo domani alle 11, in Università Cattolica a Milano, Charles Taylor terrà una lectio dal titolo «Solo la secolarizzazione ci potrà salvare? Fede e ragione nell'epoca del disincanto». Nella stessa giornata, insieme a Monsignor Claudio Giuliodori, al docente di Teologia Julian Carron e al professor Adriano Pessina, parteciperà alla tavola rotonda «La secolarizzazione e le sue sfide».
Professore, lei vede la secolarizzazione come un processo di trasformazione e non un punto di arrivo, per la fede. È così?
«La secolarizzazione come la intendiamo è situata in un contesto geografico e politico preciso. Quando parliamo di noi, intendiamo noi occidentali. La maggior parte di noi parla della nostra epoca come secolare con nostalgia, riferendosi ad altre epoche in cui prevaleva la fede come elemento sociale portante. L'abbandono di ogni pratica e credo religioso, le persone che si allontanano da Dio e non frequentano più la Chiesa, gli spazi pubblici spogliati della presenza iconica di Dio. In questi sensi sì, l'Europa è diventata secolare».
Lei però non sembra interessato a discuterne in questi termini.
«A me interessa comprendere in quale contesto culturale operino la nostra ricerca e la nostra esperienza religiosa».
Come mai?
«Perché il nuovo terreno di scelta può diventare l'occasione per la ricomposizione della vita spirituale in nuove forme e per nuovi modi di esistere sia all'interno sia all'esterno del rapporto con Dio».
Lei parla di nuovi linguaggi da creare per un dialogo, visto che quelli tradizionali sono stati abbandonati.
«Nel tipo di contesto culturale contemporaneo, ciò di cui abbiamo bisogno è il linguaggio dell'esperienza. La vita o la pratica religiosa cui faccio riferimento non deve essere soltanto una mia scelta, ma deve parlarmi, dev'essere percepita come significativa nei termini della crescita spirituale che sperimento ogni giorno. Possiedo, sento il senso che esiste qualcosa di più altro e di più profondo, di una forma più piena. E ho necessità di incarnarlo».
Sostiene la necessità di un linguaggio spirituale sottile che descrive come una «forma creativa di pratica religiosa». Trova esempi anche in letteratura, nella ricerca spirituale di Camus, Flannery O'Connor o del poeta Gerard Hopkins.
«Si tratta di incoraggiare le forme metaforiche di espressione: un certo tipo di metafore aiuta le persone a trovare la propria strada, proprio perché provano a definire il senso che è oltre l'umano. Ci sono oggi un gran numero di movimenti che sono in grado di rendere molto chiaro che tipo di ricerca spirituale stanno facendo, che raccolgono organizzazioni e individui che vogliono rispondere a questa ricerca, che aprono un dialogo e consentono a questa ricerca di espandersi nella società».
Qual è la domanda che questa ricerca spirituale si pone?
«Che tipo di individuo spirituale vuoi diventare?».
Siamo però in un contesto, soprattutto post-pandemico, in cui la crisi interiore intacca addirittura la salute mentale.
«Perché cerchiamo il senso, sempre, sì. Ma non comprendiamo più quello che stiamo perdendo. Per me, che credo, è chiaro, guardando qualcuno dal di fuori: vedo che sente un senso di vuoto e posso capire se è religioso. Quando le persone si trovano in questo stato, qualcuno dovrebbe chiedere loro Che cosa stai cercando?, in un ascolto simpatetico. E così con i giovani: se i genitori, se le religioni tradizionali non capiscono questa ricerca, può accadere che vengano lasciati soli».
Le sue parole sono innervate da una sorta di ecumenismo spontaneo. La guerra tra religioni è tornata o no?
«Dobbiamo andare oltre l'idea che la religione sia un mezzo di controllo: una volta che capiamo che siamo tutti
cercatori, uguali tra gli altri, cooperiamo per la ricerca. La libertà è la condizione perché questa ricerca si realizzi. Non penso che il relativismo sia il problema: ci sono troppi fanatici, non troppo relativismo, nel mondo».
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