"Siamo tutti Ponzio Pilato: non accettiamo il mistero"

Lo scrittore torna con uno dei suoi libri più noti: "Oggi sono credente"

"Siamo tutti Ponzio Pilato: non accettiamo il mistero"

Perché ripubblicare un libro uscito ventiquattro anni fa? «Perché, quando l'ho scritto, ero Ponzio Pilato» dice lo scrittore e drammaturgo Eric-Emmanuel Schmitt mentre parla di Il vangelo secondo Pilato. È uno dei suoi lavori più noti, insieme alle opere teatrali, ed è appena stato riproposto dalle edizioni e/o (pagg. 208, euro 18; nuova traduzione a cura di Alberto Bracci Testasecca) con l'aggiunta di una postfazione, scritta dall'autore dopo l'esperienza del viaggio in Terra Santa compiuto su invito di Papa Francesco e raccontata in La sfida di Gerusalemme (edizioni e/o 2023).

Eric-Emmanuel Schmitt, che cosa significa che era Ponzio Pilato?

«Ero molto razionalista ed ero sul punto di credere, ma solo sul punto... Ora sono molto più vicino alla moglie di Pilato, Claudia Procula, perché come lei credo in Gesù: ho percepito la sensazione fortissima della sua presenza. È stata un'esperienza, qualcosa che va oltre la ragione e la razionalità».

È successo a Gerusalemme?

«Sì. Ho toccato fisicamente il mistero dell'uomo che è Dio allo stesso tempo, e di un uomo che è morto, ma che è ancora presente e vivo. Questo mistero, che è doppio, l'ho sentito nel mio corpo: ne ho percepito la presenza tramite l'olfatto, l'aria era calda e sentivo qualcuno che mi guardava...»

Questo mistero è l'essenza del cristianesimo secondo lei?

«Capisco perché alcune persone non siano cristiane: è difficile e folle esserlo. Gli altri monoteismi sono più semplici; nel cristianesimo tutto è basato sulla strana storia di un uomo che è Dio e che muore ma non è morto. E poi riguarda l'amore: devi amare il tuo nemico, non semplicemente rispettarlo, amarlo. Credo che il cristianesimo sia molto esigente, più di altre religioni».

Anche per la sua esperienza di credente è così?

«Sono stato fortunato a conoscere ogni colore dell'arcobaleno spirituale: l'ateismo, la fede intellettuale, la fede mistica e quella nel corpo. Penso che ciascuno percorra la sua strada: la mia è di grandi contrasti e credo non sia ancora finita».

Nella prima parte del libro è Gesù stesso a parlare, da «condannato a morte».

«È Gesù come un uomo, perché non ero in grado di farlo parlare come Dio. Però è un uomo col paradosso di avere Dio dentro, perciò ha tantissime domande: ha dei dubbi, non è sicuro di essere legittimato».

Perché?

«C'è una cosa curiosa: Gesù passa trent'anni senza dire una parola e poi, per tre anni, parla. Perché è rimasto in silenzio e poi ha deciso di parlare? È diventato più fiducioso e ha deciso di morire a Gerusalemme? Però ci sono le sue ultime parole al Padre: Perché mi hai abbandonato?. È una domanda, un dubbio e io volevo lavorare su questo, sulla sua parte umana».

Nella seconda parte, Pilato è un po' uno Sherlock Holmes, che indaga su un fatto inaudito: un morto resuscitato.

«Per lui è un enigma e lo vuole risolvere. Ma scopre che invece è un mistero e non ha soluzione; perciò prima ne rimane deluso, poi si apre anche lui al mistero. Pilato è simile a noi: è pragmatico, razionalista e conduce un'inchiesta».

Perciò scrive che «siamo Ponzio Pilato»?

«Sì, perché siamo materialisti come lui e, come lui, rifiutiamo il sovrannaturale, ciò che va oltre la ragione. Pilato è ossessionato dal potere, dal fatto che Roma sia rispettata».

Perché scrive i nomi dei personaggi in ebraico?

«Per evitare una tradizione lunga duemila anni e poter raccontare un'altra storia con più facilità».

Come ha deciso di affrontare una sfida del genere?

«Era una grossa sfida, ma mi piaceva. Ho deciso di farlo quando ho trovato i due punti di vista, quello del Gesù umano e quello di Pilato, che mi avrebbero consentito di raccontare una storia che tutti conoscono in modo molto diverso: per me era eccitante. L'obiettivo era di renderla nuova, per offrirla alle persone di oggi e dire loro: giudicate voi, che cosa ne pensate. Ed è ancora più eccitante, e difficile, perché sono credente».

Perché più difficile?

«Volevo essere rispettoso della fede, ma anche essere originale e scrivere di Giuda, come faccio, descrivendolo come il discepolo preferito, colui che aveva capito quello che Gesù voleva durante l'ultima cena e raccontandone il sacrificio. Ne ho parlato anche col Papa, che ha riso: Perché no? È interessante».

Secondo alcuni, Giuda non poteva comportarsi diversamente.

«Cerco di andare oltre anche questa ipotesi. Per me Giuda non è una vittima bensì un eroe, che decide di sacrificarsi alla causa di Gesù, per renderla possibile».

Come definirebbe il libro?

«È un romanzo d'inchiesta. Un romanzo mistico, nella forma di un poliziesco».

Dopo tutti questi anni cambierebbe qualcosa?

«No. Anche se oggi sono più vicino a Claudia che a Pilato, non scriverei dal punto di vista di Claudia, perché voglio parlare sia agli atei sia ai credenti, non solo a questi ultimi».

Claudia, la moglie di Pilato, è una delle donne che restano con Gesù fino alla fine?

«Sì. Sotto la Croce c'era una donna non identificata e io ipotizzo che sia Claudia. È una decisione da romanziere, dovuta anche al fatto che volevo insistere sulla presenza delle donne: i valori di Gesù erano femminili. Non era femminista ma era una figura femminile, pur essendo un uomo».

Dubitare è già credere?

«Il dubbio è la vita

della mente e dello spirito. L'indifferenza è la morte dello spirito: quando hai fede, hai anche dei momenti di dubbio ma, quando non ti poni domande, sei morto. Dio è presente in tutte le nostre menti, in forma di domande».

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