Sicurezza Ma queste gare servono anche per salvare chi va in moto tutti i giorni

Il diretto confronto sulla sicurezza, tra le due e le quattro ruote, tanto in pista, quanto su strada, non assegna gli stessi progressi ai due mezzi motorizzati, nelle sperimentazioni e nelle ricerche degli ultimi 50-60 anni. Anzitutto perché le possibilità di progredire sono insite nella concezione stessa dei due veicoli, il primo quasi privo di protezioni agli urti ed il secondo con ridondanza di elementi. E poi perché - spiace constatarlo - l'applicazione degli studiosi e dei laboratori è decisamente minore in campo motociclistico.
Eppure, nella constatazione che la competizione dà ancor oggi i suoi innegabili contributi, piccoli o grandi che siano, bisogna riconoscere che molti passi avanti sono stati compiuti nell'ambito della moto da corsa. A cominciare dall'abbigliamento del pilota, che parte dal casco e procede con alcune protezioni e con imbottiture della tuta, specialmente sulle spalle, sulla schiena e sugli arti. Pensate, nel 1951 ho assistito all'incidente, apparentemente banale (uscita su un campo erboso), ma in realtà mortale, di un campione del mondo, Dario Ambrosini, nel Gp di Francia ad Albi, perché i caschi di allora erano semplicemente ridicoli e bastava un paletto per sfasciarli. Parallelamente, sul Circuito del Garda, ho visto cadere, a velocità relativamente bassa, una giovane promessa, Armando Miele, che si è rialzato con un braccio paralizzato. Non dico quanti e quali incidenti mortali si siano avuti in quegli anni. E non si faceva nulla.
Ho esordito giovanissimo come commissario tecnico e membro di commissione della Federazione italiana: non esistevano regole e tutto era lasciato alle singole iniziative, anche nella creazione di piste e di semplici circuiti stradali, dove oggi almeno esistono norme e tecnici competenti, per garantire le più adatte protezioni.
Certo, se un motociclista cade in traiettoria, come il povero Tomizawa, seguito da concorrenti in scia, che lo investono, non vi sono studi o sperimentazioni che tengano, senza una teorica capsula di sopravvivenza. La carenatura, nata in seguito ad esigenze di semplificazione aerodinamica, con una normativa molto semplice, dopo le esagerazioni dei rivestimenti totali del 1956, potrebbe essere meglio studiata, in termini di sicurezza. Anche se, in ultima analisi, lo sport motociclistico va accettato con i suoi limiti. Come ogni altra disciplina ad elevati contenuti di rischio, tipo paracadutismo.


Se negli odierni laboratori di ricerca si comincia a parlare di soluzioni paragonabili al moderno «airbag» anche per i motocicli (la Formula 1, ad esempio, non ne vuol sapere, per le sue notevoli difficoltà tecniche), sarebbe meritorio che iniziasse proprio sui campi di gara una sperimentazione di grande utilità anche per la sicurezza passiva nella normale utenza stradale. E questa attività sportiva, con un numero crescente di appassionati, ma anche con qualche dissidente, verrebbe vista con occhi ben diversi.

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