Tra Silvio e Gianfranco nozze mai consumate in 17 anni di alti e bassi

Berlusconi lo «sdoganò» nella corsa al Campidoglio del 1993 Eppure Fini non ha mai digerito il ruolo di «secondo» del Cav

Tra Silvio e Gianfranco nozze mai consumate in 17 anni di alti e bassi

In fondo, a ben guardare, è così fin dall’inizio. In fondo, Gianfranco Fini semplicemente sono diciassette anni che fa buon viso a cattivo gioco, o meglio, cattivo viso a buon gioco. Perché son diciassette anni che ce l’ha dipinta in faccia, l’insofferenza per il Cavaliere. Ma il gioco, quello elettorale e non solo, da diciassette anni gli impone lo stesso copione: è Silvio Berlusconi quello che vince le elezioni, non lo scarichi uno così. Poi però càpita che non ce la fai. Càpita che eri il re del tuo partito, l’Msi prima, An poi, e adesso sei un vicerè. Càpita che ci provi, a ritagliarti un altro ruolo, o la va o la spacca. Per ora non è andata, il ragno è rimasto impigliato nella ragnatela di smarcamento tessuta fino a qui, la sconfitta alle urne dell’area finiana del Pdl parla da sé. Ma Fini non è uno abituato a mollare, e se non va, allora spacca.

«O con me o vado da solo» ha alzato il tiro ieri in un’esplosione irresoluta e liberatoria di rancore mai sopito, se mai covato. Perché è così fin da allora. Era il 24 novembre del 1993 quando Silvio Berlusconi spalancò le porte del ghetto in cui bruciava la Fiamma: «Se votassi a Roma non avrei un secondo di esitazione: voterei lui». L’Italia intera parlò di «sdoganamento». Lui, Fini, commentò acido: «Si sdoganano le merci, non le idee». Eppure così era, e non c’era altro modo per ottenerlo, lo sdoganamento di un partito, l’Msi, considerato «fascista». Andò bene, Fini non diventò sindaco, ma fece il pieno di voti: 35,8 per cento, un inedito. Da allora è stato un alternarsi di fasi, amore e odio, piazze gremite assieme e corse a superarsi, fino allo scranno impensato e più alto, la presidenza della Camera. Dopo la battagliera attesa per conquistare il ruolo di Delfino del premier, per Fini è iniziato il faticoso crescendo di tentativi di distinguersi da lui. Una diversa identità, l’ex leader di An l’ha cercata anche a costo di perderla. E di perdere i consensi dei suoi, che ha bistrattato e spiazzato a suon di giravolte dal voto agli immigrati ai temi etici che gli valsero il titolo di «perfetto leader del Pd». A indicare il nervosismo c’era già stato quello sfogo in fuorionda, Fini che non sa di essere registrato e dice: «Berlusconi confonde il consenso popolare con l’immunità». Poi lo stillicidio di botta e risposta. «Con Fini è tutto a posto» diceva Berlusconi, «Non è tutto a posto» replicava lui. «I pm dovrebbero vergognarsi» annunciava il premier, «I pm non devono vergognarsi» rimbrottava lui. «Siamo in uno stato di polizia» lamentava il Cav. «Non siamo in uno stato di polizia» rintuzzava lui. Silvio sempre più spazientito, Gianfranco sempre più tignoso.

Su tutte, ci sono almeno tre date a segnare il percorso che ha portato al botto di ieri, e che porterà chissà dove. La prima è lontana, 9 dicembre 2007: «Berlusconi vuol fare l’asso pigliatutto. Ormai siamo alle comiche finali» disse attaccando sulla legge elettorale, inviperito per quello stesso dialogo del Cav con Veltroni che adesso auspica. Non fosse caduto il governo Prodi di lì a poco, forse già allora An avrebbe rotto il patto con Forza Italia. La seconda data è il 10 novembre del 2009. Il Pdl esiste già e Fini tuona che non gli piace, né gli piace come governa. Vuole più collegialità, dice, e intanto affonda tutto ciò che il partito sta facendo alla guida del Paese, dall’immigrazione ai giudici l’è tutto da rifare. La terza data, più recente, non lascia spazio a dubbi. È il 24 marzo scorso, mancano quattro giorni alle Regionali. Fini fa finta di non saperlo, e mentre il premier sferra l’assalto finale alle urne lanciando il presidenzialismo e ipotizzando di affidare la riforma al voto popolare, lui se ne esce con una bocciatura che nemmeno Bersani: «Per le riforme l’approccio non può essere propagandistico o di parte». È solo l’ultimo affondo: il giorno prima era tornato ad auspicare la cittadinanza breve per i figli degli immigrati, aggiungendo che «il concetto di patria va riconsiderato in chiave multietnica», non proprio uno slogan adatto alla bisogna. Nella stessa settimana preelettorale aveva paventato il «rischio di secessione morbida» sul federalismo, prendendo le distanze dalla Lega: «Il nostro partito non sia la fotocopia dei lumbard». E non è un caso che lo strappo di ieri si sia consumato proprio sull’asse di ferro fra il premier e il Senatùr, il terzo incomodo di un matrimonio mai consumato.

Perché ha ragione Lucia Annunziata, che nel metterlo in guardia dal «fighettismo» di destra lo ha stigmatizzato come tale, come appartenente a «quello stato dell’animo e della mente che vuole sapere solo quello che già sa, e ascoltare solo quello che riconferma il proprio esistente». Fini l’ex fascista negli ultimi mesi ha ricostruito il proprio personalissimo pantheon rivalutando, come fa notare il Riformista, Pietro Ingrao e Nilde Iotti, Enrico Berlinguer e Aldo Pannunzio, Mariano Rumor e Benigno Zaccagnini, e citando poi il Piero Calamandrei dell’«è giunta l’ora di resistere, di essere uomini, di morire da uomini per vivere da uomini».

Fini l’ex fascista è dal «fascismo male assoluto» che prepara l’ingresso nei salotti, di destra o di sinistra non importa purché in giro non ci siano le canottiere leghiste e i ministri padani con le scarpe sporche di fango. In fondo, lo disse in tempi non sospetti donna Assunta Almirante, una che Gianfranco lo conosce bene per averlo visto crescere: «Fini sta al gioco. Non può alzare la voce. Non è lui il capo del Pdl».

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