LA SINDROME DELLA BARBAFINTA

Maurizio Scelli, che ha chiesto l’iscrizione nel mesto club degli “ex” rancorosi, ha rilasciato la sua intervista viaggiando in auto, parlando come certi personaggi di Le Carré, lo sguardo non rivolto all’interlocutore – immaginiamo - ma al paesaggio ampezzano, intristito dall’agosto avaro di sole. Andava a Cortina, ma potevano essere i monti Tatra, nell’Europa che una volta si chiamava comunista. Si preparava a partecipare a un convegno sull’“intelligence”, sul lavoro degli agenti segreti, e questo deve avergli dato un brivido di fierezza perché lui, Scelli, qualche missione da agente più che da commissario della Cri l’ha fatta, e con successo. I tempi sono quelli che sono, salvare vite, assolvere impegni umanitari comporta anche, durante una guerra e in “terre di nessuno” senza legge e senza pietà, doti di duttilità, iniziativa, anche una certa capacità di mentire e di bluffare.
Legittimo il brivido d’orgoglio, dunque, peccato che sia stato subito seguito – è verisimile – da un moto di tristezza: perché Scelli non è più commissario straordinario della Croce rossa e certe missioni speciali non le potrà più svolgere. Deve essere stato lo scoramento, quindi, a indurre l’uscente – chiamiamolo così – a fare quel che un uomo d’intelligence non farebbe mai, e nemmeno un uomo di normale correttezza che abbia svolto incarichi delicati sulla base di un mandato fiduciario e con obblighi di riservatezza. Scelli ha dato un’intervista, raccontando come salvò le due Simone in una difficile trattativa con ulema e terroristi, con trucchi degni appunto di Le Carré, coi terroristi feriti nascosti sotto gli scatoloni nei camion della Cri. E gli americani beffati, perfino un generale nostro tenuto all’oscuro. L’intervista ha creato imbarazzo e disagio. Non tanto per la sostanza del racconto, ma per la sua gratuita inutilità. Le “rivelazioni” sono tutte da verificare, hanno provocato immediate smentite del governo, hanno suscitato incredulità e fastidio nel comitato parlamentare di controllo sui “servizi”, non convincono nemmeno l’opposizione, a parte quei soggetti afflitti da irakmania ossessiva che ad ogni grandinata fuori stagione invocano il ritiro delle nostre truppe. Il racconto di Scelli va esaminato al microscopio con molta attenzione.
Bisogna anche resistere alla tentazione delle polemiche strumentali riguardando gli avvenimenti di Bagdad. Un certo tipo di delicatissime operazioni non può essere giudicato con le regole di un Paese civile in vigore in tempo di pace. Qualcuno avrebbe forse voluto che le due Simone non tornassero a casa? Fino a che punto sarebbe dovuta arrivare la “linea della fermezza”, con quale rischio per due ragazze non appartenenti alle forze armate? E c’è chi pensa che la liberazione sarebbe avvenuta senza contropartita, sol perché gli italiani sono brava gente? Certe operazioni, riviste con occhio civile in ambienti civili, risultano sempre o assurde o ridicole, per questo nei Paesi seri talune vicende sono circondate dal riserbo.
Resta un mistero. Perché Scelli, agente mancato e commissario emerito, ha dato l’intervista? La vanità può essere un buon movente, non a caso qualche padre della Chiesa la indicava fra i peccati più gravi e diffusi. Protagonismo, rimpianto per una dimensione avventurosa soltanto lambita. Chissà. O anche un po’ di rancore perché l’incarico è terminato e non se ne è profilato un altro, magari con più spiccate caratteristiche politiche.
Maurizio Scelli ha delle qualità e delle innegabili competenze.

Ha cambiato in meglio l’immagine e la capacità d’intervento della Croce rossa, e di questo gli va dato atto. Peccato che un attore venga giudicato non solo per come calca la scena, ma per come ne esce. Riguardando l’intervista di Scelli, non si può tacere che si sono viste uscite molto migliori della sua.

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