Ricorda ancora, Raimondo Sirotti, le serate a Milano negli anni '60. Si faceva l'alba discutendo d'arte e di vita: tra i tanti compagni c'erano Fasce e Chighine che gli ripetevano «si vede che sei ligure». Avevano ragione perché lui «quella profonda radice di uomo serenamente avvinto a una condizione ligure», riconosciuta già nel '69 da Gianfranco Bruno, non l'avrebbe mai negata o abbandonata, ma trascesa in quel senso intimo della natura che molto ha del sentimento creaturale. Questo s'infonde nello spazio nella consapevolezza di una luce che è ora materia adesso atmosfera: cammino sfuggente, certo, ma necessario viatico di contemplazione. A testimoniarlo nuovamente sono le cinquanta opere, realizzate dagli anni '70 a oggi, che scandiscono gli spazi del Teatro del Falcone a Palazzo Reale nella mostra «Raimondo Sirotti. Mediterraneo. Il colore della luce», curata da Marco Goldin, che apre oggi al pubblico fino al 30 gennaio 2011. A cinque anni dalla grande antologica a Palazzo Ducale l'esposizione invita a riscoprire le trame lucenti e vitali dell'orizzonte visivo di un artista che da sempre si è posto anche in stretto dialogo con la città, non "solo" con le sue opere permanenti - al Carlo Felice, nelle chiese dell'Annunziata e di San Niccolò - ma anche nell'insegnamento, prima al Barabino poi all'Accademia di Belle Arti di cui oggi è Presidente, e nell'impegno per oltre dieci anni come Sindaco della sua Bogliasco.
L'esposizione si apre con un suo pensiero - «a volte la natura ha l'invenzione che è già l'immagine» che condensa la grazia epifanica dei suoi dipinti: rotte emozionali, episodi che trovano il proprio incipit in una roccia scaldata del sole, nella splendida e tragica caducità di una ginestra e nel rincorrersi di quelle stagioni che qui si riuniscono in un'unica sala. Sono frammenti queste tele, indici poetici di quell'equilibrio mutevole senza il quale l'uomo non potrebbe guardare il mondo. Per scoprire, sorpreso, che scrivendolo in pittura lo ha già trasceso.
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